martedì 30 dicembre 2014

COMINCIAMO E RICOMINCIATE

Non eravate voi, quelli di: “Voglio una vita spericolata”?
Quelli della musica dance, del rock, delle grandi canzoni romantiche, del folk.
Quelli ubriachi ai concerti, quelli sempre eleganti, quelli che leggevano milioni di libri, che volevano cambiare il mondo.
Eravate voi si, lo so, quelli delle gite allo stadio, degli esami e delle notti insonne.
Dei musei più belli, dei viaggi nel mondo, delle moto grosse e dei vestiti corti.
Eravate voi che dicevate di voler vivere in modo esagerato, rispettosi di tutto però, senza casini.
Quelli in piedi sul divano a cantare e urlare, quelli dell’Italia campione del mondo, dei balli di scuola, dei compagni morti di overdose e dei compagni laureati.
Voi dei grandi amori e delle grandi passioni. Dei Chicago e dei Lakers.
Quelli della Ferrari migliore di sempre, delle grandi gare, di campioni delle due ruote.
Eravate voi che avete assistito a attentati e guerre.
Che avete davvero vissuto esageratamente come Steve Mc Queen.
Adesso, siete coinvolti in questo mondo che ha come base l’avanzamento tecnologico.
Siete e siamo seduti sempre con un telefono in mano a mettere like e condividere cose non importanti, quando abbiamo un mondo da scoprire.
Condividiamo la cultura, le idee e le pubblicità si, condividiamo tutto quello che ci può essere davvero utile, ma poi usciamo di casa e dobbiamo, noi cominciare e voi ricominciare, a vivere davvero, a vivere come vogliamo, a non stare davanti a un monitor ad annoiarsi.
Cominciamo a riempire pagine di poesie e racconti e poi leggiamoli ad alta voce ai nostri figli.
Stiamo con loro. Viviamo ogni giorno come se fosse l’ultimo, frase banale ma è così, perché tra un anno, tra un mese, un giorno, potremo non sentire più niente, non correre. Oppure correre più veloce o sentire meglio.
Liberiamoci un po’ dalla tecnologia e dal nostro riempirci di stupide cose.
Viviamo il mondo che c’è fuori.

lunedì 29 dicembre 2014

NOI SIAMO COSì

Erano quelle notti insonne che non ci permettevano di essere pronti il giorno dopo.
Quelle notti passate tra strazianti lacrime e tristezza che ci lacerava i cuori affranti.
Erano le notti in cui scoprivamo della morte delle nostri madri, dei nostri padri, dei nostri fratelli.
Erano notti buie più di qualunque tenebra.
Erano cose che non puoi nemmeno raccontare se non ti hanno sfiorato.
Era l’amore che ti salutava e volava via.
Era la vita che si sbriciolava piano piano e che finiva il suo ciclo.
Ma noi non capivamo perché. Perché debbano succedere follie simili a esseri umani.
Perché forse dovevano insegnarci che nella vita non è tutto una dolce storia.
Che esiste il lato oscuro di ogni cosa anche se noi non vogliamo vederlo. Che la metà del cervello che non funziona è quella della morte e della concezione dell‘infinito.
Troppo spesso però abbiamo paura della morte, quando la cosa più pericolosa è nascere.
Ma è dovuto a noi, possiamo decidere, siamo consapevoli che nella vita esiste la sofferenza, che deriva dall’amore e dall’importanza che si da alle persone e dai legami che hanno tra di loro uomini, donne e esseri umani.
 Penseremo che quando si diventerà concime non sapremo più chi siamo.
Che quando ci scioglieremo nel fango saremo stati inutili.
Quando non sentiremo più niente allora ogni carezza data e ricevuta sarà stata vana.
Ma non è così, è che prima di una grande sofferenza c’è stato tanto di quell’amore che arginerà tutta la sofferenza presente dentro di noi. Che ci permetterà di rinascere nei ricordi di chi ha lasciato il proprio corpo per diventare energia. Per liberarsi dalla carne e diventare anima.
Siamo anime dentro a corpi. Siamo energie che amano e che soffrono. Siamo la forma più complessa di vita.
Siamo esseri umani e nessuno ci toglie dal compito, se non noi stessi con brutali atti, di andare avanti a respirare e riuscire a pensare che tutto sarà ogni giorno meglio, quando invece si riesce solo a sprofondare nella memoria che taglia più di mille vetri rotti.
Ma arriverà, arriverà il giorno in cui apriremo la finestra, fuori ci sarà un profumo di rose e allora, al posto di mille lacrime ne scenderà una sola che ci dirà che esistiamo ancora, che qualcuno che non possiamo toccare, ci sta proteggendo.

mercoledì 24 dicembre 2014

IL NATALE DELL'ANZIANO

Era una notte  buia e tempestosa, molte notti erano state buie e tempestose.
L’uomo seduto alla scrivania con in bocca l’ultima Marlboro del pacchetto, odiava le notti buie e tempestose, ma in fondo lo diceva e basta, perché stava bene quella sera.
La finestra cominciò a trasmettere l’acqua che intanto si era trasformata in neve leggera che cadeva a terra senza nemmeno fare rumore.
La candela davanti a lui era ormai finita i suoi occhi aspettavano che la porta potesse aprirsi.
Nessuna gioia e nessun dolore lo persuadevano. Solo una grande voglia e un impaziente attesa.
Si alzò e lentamente si sedette al pianoforte.
L’aria si era vestita di un suono dolce che vibrava fra le pareti della modesta casa, gli occhi commossi con lo sguardo su quella vecchia foto di sua moglie, un immagine ferma lì da almeno cinquant’anni ma che si rianimava ogni qual volta lui ci pensasse.
La stanza era buia, nemmeno una piccola fiammella o un po’ di cenere erano rimasti accesi.
Tutto era fermo tranne le anziane dita che toccavano il nero e il bianco e i piedi che si muovevano adagio sui pedali, quasi a essere in macchina.
Ormai la schiena non permetteva più di guidare, era bello un tempo essere liberi di andare.
Forse però, gli venne in mente in quella sera di Natale, il decimo senza la sua amata Rosa, che lui era ancora libero e mai era stato davvero così libero.
Voleva trovare un senso a questi suoi pensieri. Erano forse solo utopie o cose per farti credere in te stesso. Forse erano patetici frasi lette o scritte, erano cose che non potevi avere.
Non si sentiva male, stava bene, seduto al pianoforte con le mani giunte e lo sguardo basso a pregare, mentre fuori la neve cadeva a nastri che cospargevano di pace e innocenza l’intera città.
Si sentivano voci lontane, provenienti da qualche bambino che alla luce della luna e dei lampioni si rotolava nella neve.
Ecco che qualcosa entrò nella porta e la testa si girò verso l’uscio. Non c’era nessuno, era solo il vento che toccava la pelle dell’anziano signore e lo faceva credere in cima al mondo.
Era il vento mandatoda chissà da chi, era il vento che gli diceva di venire, di provare a volare, di seguirlo e così lui fece.
Con quel sorriso che aveva avuto fin dal primo respiro e quella camminata impacciata, il vecchio si buttò nel vento per volare via con lui, con la sua musica, con le voci, le lacrime, le preghiere. Per volare, almeno con la mente in quella notte speciale da lei che se ne stava lassù e da Lui che gli aveva insegnato ad amare.






mercoledì 17 dicembre 2014

LA NASCITA DEL MONDO

Era seduto su uno sgabello e stava cantando.
Vi giuro che stava cantando.
Probabilmente parole senza senso, lì con la sua chitarra che cantava seduto su uno sgabello in legno.
Aveva davanti a sé l’amore e dietro brutali ricordi.
Solo allo sguardo di ciò che vide si rese conto di essere vivo.
Era vivo ma non aveva ancora vissuto.
Guardava ciò che aveva di fronte e mentre cantava, per ogni parola una lacrima e un singhiozzo.
Il suo sorriso era lì. Quello che guardava doveva proprio avere due occhi che commuovevano e un sorriso d’oro.
Cominciò a soffiare un grande vento comparso dal nulla, i suoi capelli rimanevano attaccati per quello che potevano e la sua giacca volò via.
Il corpo spoglio. Il suo viso inconsapevole.
Non c’erano nuvole in cielo e se guardavi bene, nemmeno c’era il cielo.
Era solo una sconfinata massa di infinito e se guardavi bene, nemmeno lo vedevi l’infinito.
Vedeva solo lui, vedeva lui lì con la sua chitarra che cantava su uno sgabello di legno.
Aveva davanti a sé un angelo e dietro le meraviglie del mondo.
Era un angelo donna o così sembrava.
Lei non piangeva.
Lei lo toccò e lì, in quel momento nacque tutto.
Era vivo e lo sapeva. Stava vivendo. Quel giorno nacque il mondo. Nacquero gli uomini e nacquero le donne.
Quel giorno nessuno lo ricorda perché troppo lontano o folle. Forse strano.
Quel giorno nacque tutto, quando un uomo venne a contatto con un angelo.
Ecco la nascita della vita e delle carezze. Ecco la nascita di ogni cosa. Dell’amore e dell’odio. Del dolore, che provò l’uomo quando la creatura volò via e del piacere di quando tornò.
Siamo fatti di angeli. Siamo fatti per volare via dal posto in cui ci mettono. Siamo fatti per rimanere e accarezzarci, per ricreare il mondo ogni volta.


giovedì 11 dicembre 2014

INNO DI UN SOGNATORE

Fermiamoci un attimo. Fermiamo il tempo. Fermiamo l'odio, fermiamo l'amore.
Prendiamoci la testa fra le mani e appoggiamola su un tavolo.
Apriamola, prendiamo un cucchiaio e mangiamo tutto quello che c'è dentro al cranio.
Cervello, cervelletto e midollo allungato.
Gustiamo per bene tutto perché non torneranno mai più quei sapori. Gustiamo la nostra testa perché non la mangeremo mai più.
Amiamo ciò che abbiamo perché forse un giorno se ne andrà.
Denunciamo ogni movimento criminale in modo che muoia, per poter vivere meglio.
Teniamoci per mano e sorridiamo.
Adesso abbiamo la mente vuota e libera da ogni triste ferita. Rimaniamo spensierati che non vuol dire ignoranti e senza cultura. Restiamo leggeri per volare meglio in un cielo mano a mano più azzurro e più chiaro, facciamo diventare la notte blu e non nera e il giorno azzurro e non grigio.
Apriamo i nostri libri e leggiamo le nostre parole.
Mille lingue per dire una cosa sola. Mille voci per gridare la stessa cosa.
Liberiamoci dal mondo e dagli uomini che ci sotterrano. Costruiamo i nostri sogni sulla terra libera che vogliamo.
Poi ripartiamo tutti insieme, riattacchiamo la testa solo piena di saggezza, storie, cultura e amore.
Chi lo sa cosa succederà allora, se faremo così. Forse neanche Dio lo sa.
Tutto andrà avanti come prima, l'erba crescerà e le idee cambieranno.
Ma se ogni cosa la faremo in due. In tre o in un milione, ogni idea diventerà realtà e non sono solo frasi già sentite, sono un incoraggiamento a noi che forse vorremo cambiare il mondo.
Ma per cambiare il mondo bisogna saper sognare.
Per saper sognare bisogna fermarsi un attimo ad ascoltare con la testa fra le mani.
Tutto si può cambiare, cambiamo anche noi...

martedì 2 dicembre 2014

IO DENUNCIO LA MAFIA

L’asilo era privo di carta igienica e acqua potabile.
Il gommista mi chiedeva sempre più soldi.
Quando entrava il prete in casa per la benedizione mi sparivano collane d’oro e soldi.
Ogni  mese ricevevo la notizia della morte di qualche amico o conoscente, morti per soffocamento o incidenti in auto o coinvolti in esplosioni.
Forse mi accorsi un po’ troppo tardi che la mia vita correva parallela con quella della mafia.
Tutto quello che mi circondava era mafia, affare losco, complotto, insicurezza, tenebra e paura.
Un giorno decisi di farla finita, mi avrebbero ucciso a me o chiunque con cui avrei deciso di mettere su famiglia, ero costretto a vivere da solo e quindi andai  fino sul ponte della città, chiusi gli occhi, preparai la mia mente al salto ma … mi fermai, con il vento che muoveva i capelli e finalmente cominciai a ragionare e mi venne in mente che non  sarei dovuto morire io, ma loro, quei falsi, maledetti, sporchi luridi bastardi sarebbero dovuti morire.
Loro dovevano soffrire non noi. Non la gente che lavorava onestamente, non i poeti, gli artisti, i muratori, i medici.
Nessuno meritava di morire più di chi morte voleva. Era un mondo dannato e pieno di soli arroganti attirati dal luccichio delle monete e della filigrana.
Io dovevo fermare quel mondo e aprire le porte dell’altro.
Volevo che chiunque potesse credere, dire e fare.
Cominciai a scrivere alcuni articoli per giornali locali e a tenere qualche discorso in piazza per dire ciò che fanno questi uomini.
Tutta la gente morta, trucidata, bruciata.
Raccontai di chiunque conoscesse storie sulle vicende mafiose.
Girai l’Italia e denunciai al popolo nomi e cognomi, organizzazioni e movimenti loschi.
Denunciai al popolo e alla televisione ogni mossa e affare.
Quando un giorno, su un palco, con il microfono tra le mani e tanta rabbia nella voce, un uomo con il volto nero coperto e tra le mani un fucile anch’esso nero, mi sparò al cuore un proiettile.
Mi uccise.
Avevo smesso di parlare una volta per tutte. La mia voce era finita e rimasi lì, con la gente che mi guardava stupita, che piangeva il mio corpo.
Quelle lacrime per me, che denunciavo il movimento mafioso e lo denuncio tutt’ora dall’alto, quelle lacrime volevano dire che io ero zitto, si io, ma che altre migliaia di persone avevano cominciato ad urlare contro gli uomini del male.



lunedì 24 novembre 2014

SOLDATI SENZA SCORZA

Piangevano. Credevano. Cadevano.
Pregavano. Dormivano. Parlavano.
Loro, affamati soldati di guerre inventate. Camminano arrabbiati con i cani al guinzaglio e odiano il sole e la pioggia loro vogliono il nero.
Mi ricordai quando mio nonno mi raccontava, di quello che io ero e che fui. Uomo insensibile capace di uccidere e poi di ridere.
Capace di vedere la morte e salutarla canticchiando qualche canzoncina allegra, sorridendo pure tra me e me.
Perdevo la paura e imbracciavo il fucile. Sparavo in lungo e in largo e uccidevo madri senza proiettili. Uccidevo donne senza colpirle.
Uccidevo fratelli senza averli salutati un ultima volta.
Poi venivo ucciso anche io e morivo. Non mi risvegliavo più e rimanevo giù, sprofondato nel mio abisso di pensieri inopportuni e sentendomi inadeguato al mondo di là fuori pregavo Dio che mi
facesse vedere la luce per uscire dal tormento che avevo dentro.
Per quanto facesse male era divertente pregare.
Dormivo nelle tende che la notte mi dava e accendevo il fuoco con il mio orgoglio.
Erano empi tremendi sotto il cielo di cenere e fiamme che ci cadevano in testa.
Ricordavo i tempi della pace e i suoni dell'acqua che coprivano le bombe un tempo lontane.
Quanto era brutto quel posto là. Era la guerra di noi che non ci capiamo niente. Era la guerra dei soldati senza pelle che piangevano leggendo una poesia.
Era la guerra di chi a volte sorrideva mentre dentro la morte si impossessava di lui senza risparmiarne nemmeno il cuore.

martedì 18 novembre 2014

LO'E DEVE TACERE

Mi chiamo Lo'e.
Ho sempre vissuto a casa con mia madre.
Mio padre è morto quando avevo solo undici anni.
Ragazzo irriverente, impertinente, non capito dalla gente.
Ho amato la campagna finché non mi ha ucciso la sua solitudine, quella dei campi e delle sere in cui mi trovavo nudo in mezzo al vento che soffiava forte.
I miei occhi sempre felici ma in realtà senza emozioni vere, guardano il cielo che non mi aiuta.
Tesso le tele e amo l'amore che provo.
Ho paura della morte quando arriverà ma se busserà, aprirò e la inviterò nel salotto per un tè.
Poco amato forse, non cerco gloria ma solo un po' di folle tenerezza.
Ho paura della mia vita, voglio che resti con me per sempre, che non scappi.
Poco vivo forse, tengo soltanto a qualche sorriso e qualche carezza ricevuta.
Ho soltanto sperato tanto che qualcosa Dio mi desse oltre il grano e la guerra che in pace non sarò mai. Il mio lavoro è il mio denaro e la carne che indosso come un costume.
Il mio cane se ne è infischiato se piangevo per lui e non ha più abbaiato.
Pioggia e sole sono i miei creatori e i genitori che mi vengono a trovare tutti i giorni.
Non ho orgoglio e non credo di poter pensare ad una vita sola.
Vorrei non aver paura della felicità e della tristezza.
Vorrei essere sereno com'ero ieri e non agitato come quando oggi mi hai sfiorato.
Vorrei guardare le rondini in cielo senza avere dubbi sulla mia esistenza.
Ho paura di soffrire quando le stelle cadono e ho paura di morire quando la luna non c'è.
Ogni sera mi stendo nei campi e osservo il giallo scuro delle spighe nella notte e l'erba alta, blu, come lo sfondo di quel meraviglioso quadro.
Le cavallette e le lucciole saltano e volano su di me. Io resto fermo e le aspetto tutte le volte.
Poi ogni tanto sussurro qualche verso che ho imparato.
Sono sempre solo nel prato, mi piacerebbe che qualcuno mi venisse a trovare qualche volta ma sono tutti troppo impegnati nelle loro vicende sporche e ignobili come i soldi e la droga.
Vogliono arricchirsi di gambe e di bottiglie, di cattiveria e di violenza quando si potrebbe stare tutti in pace e avere lo stesso senza bisogno di sparare. Provo un profondo odio e piango e le lacrime scendono dure sul mio volto senza espressione, sfinito dalla crudeltà mia, che ora mi sale dentro e non esce più finché non urlo, ogni sera, un grande urlo che fa alzare le rondini e i passeri e mi riesce a rendere un po' diverso. Senza odio ma solo paure. Senza credo ma solo pianti, senza sorrisi ma solo amore, senza calci ma solo carezze, senza pelle ma solo ossa, senza uomini buoni intorno a me.
Rinchiuso nel mondo in cui volevano gli assassini che rimanessi, resto in silenzio perché non posso parlare, ma mi mostro al mondo come l'uomo che può urlare


martedì 11 novembre 2014

VITA DI UNA NOCCIOLINA

Una nocciolina proveniente dal supermercato sotto casa, riposava comodamente su un piatto di ceramica.
Era stata comprata insieme alle sue sorelle circa tre ore fa.
Prima la sua casa era un comodo sacchetto bianco di carta, ora possedeva solo un letto.
Aveva freddo quella sera la piccola nocciolina senza maglione né cappotto.
Il caffè che fumava nella tazza accanto era per lei una grande ciminiera di una fabbrica.
La tovaglia a quadretti blu e bianchi era una bellissima tappezzeria e qua e là, si trovava qualche grossa montagna di pane e colline di torta.
La nocciolina non sembrava stupita di tutto quello che gli accadeva intorno, era sempre lì e lì, per lei sarebbe sempre rimasta.
Sua madre, brava e buona, una nocciolina proprio da mangiare, suo padre era un gigantesco nocciolo nella campagna e suo fratello, ancora piccolo era solo un capriccioso, in lui niente di buono a parte la speranza.
La nocciolina era immersa nei suoi profondi pensieri quando arrivò l'innominabile.
La prese, la tenette fra l'indice e il pollice, poi la schiaccio con tutta la forza che aveva, distruggendogli la pelle e lasciando solo muscoli e ossa.
“Che pelle dura”.
Pensò tra sé l'individuo.
La poggiò sulla lingua bagnata, chiuse le sbarre e la nocciolina, divisa in tanti pezzi, scivolò giù per la gola dell'individuo che provò uno strano senso di piacere.
Scomparirono i suoi pensieri, le sue paure e i suoi ricordi. La piccola nocciolina, così fragile e carina non c'era più. Lei era andata giù.
Chissà cosa aveva pensato.
Chissà se le noccioline pensano.
Ma io sono una nocciolina? Perché no. Stessa materia in fondo. Siamo tutti della stessa materia. Io, come lei forse, siamo fatti di illusioni e di pensieri. Superficiali e profondi son pur sempre pensieri, sta a noi decidere come vogliamo che siano. Spesso sono anche deliranti. La nocciolina ormai giaceva nell'oscurità e nel buio più profondo senza più capirci niente, perché poverina la sua forma non era più quella di un tondo.

martedì 4 novembre 2014

SBAGLIATI E INGABBIATI

Era una sera calda d’estate, in cui la Tv fungeva da poggiapiedi.
Rotta se ne stava in silenzio senza parlare di uccisi e di morti, di tragedie e cicloni, di calcio e di politici, di ladri e di cantanti.
Camminavo su e giù per la strada di casa, ma tu lì non c’eri e io male stavo a pensare a quando mi avrebbe morso un leone.
Immerso nei miei pensieri profondi, di guai e dintorni, di piccioni e giraffe, di domani e domande, di tristi pagliacci e animali rinchiusi nel circo vagante nel mondo più oscuro.
Giocolieri ingessati e padroni rubati, terre senza più bestie feroci e gabbie piene di denti e di unghie.
Sorrisi di piccini inseguiti dal tormento che loro gli animali gli vogliono senza collare.
Tigri ammaestrate a non mordere in pubblico e scimmie curate come fanciulli reali.
Sporcizia e miseria intorno a quel circo e lettere tristi di madri sconvolte, l’Africa chiama a sé i suoi animali e scatena una guerra … una guerra fra umani. Cigni maestosi e api zebrate, zebre volanti e leopardi azzoppati.
Corre lento lo struzzo in tondo, mal di testa gli viene e allora, fanno entrare le iene, tremende e affamate come la folla pagante, ormai con la pancia piena di fresche bevande.
L’uomo al centro con baffi curati e volto falso, annuncia con ansia il prossimo spettacolo, in un circo grigio come l’asfalto.
Le ginnaste saltano da un anella all’altra ma nessuna, neppure con quel trucco è davvero bella.
Sogni di libertà rimangono utopie sotto quel telone dove un morso mi darà il leone, per farmi capire che lì non ci vuol stare e che la gabbia io gli devo aprire.
Quindi amici curatevi della nostra natura, che lei continua a tenerci in vita ed è così semplice e matura, che sente quando siamo in pericolo, non smettiamo di pensare e di amare gli animali, togliamo le sbarre e ridiamoli le ali.

giovedì 30 ottobre 2014

POETA DISTRUTTO

La sofferenza passata in quei giorni, non la dimenticherò mai.
Stavo proprio male io, seduto alla scrivania, poeta disfatto, con la penna accanto a me senza più inchiostro né parole. La bottiglia che avevo di fronte cambiava forma a seconda delle ore del giorno. Il tempo però mi sembrava trascorrere lento e non sentivo piacere e non provavo sentimenti.
Ogni tanto mi sforzavo di pensare e di inventare qualche verso che mi poteva dar sollievo ed ispirare per poi continuare. Erano passate circa otto notti da quando avevo scritto l'ultima frase, goccia di magia lontana.
Nulla mi sentivo più vicino a parte quel dolore di non riuscire, di incapacità di fronte a Dio ed io uomo semplice, inaccontentabile di ogni cosa, che troppa fame avevo e mi ardeva dentro come un grande fuoco. Il giorno aveva perso luce e i miei eroi erano crollati vedendomi piangere dall'insoddisfazione.
Dovevo andare oltre. Volevo vedere il futuro volevo già troppo e mi dovetti fermare.
Faceva male non riuscire a scrivere, con la mano che sulla carta dolce tremava.
Non vedevo più la luna in cielo e neanche le stelle erano accese.
Una piccola farfalla della notte entrò dalla finestra aperta e si poggiò su un libro, per poi lasciarsi andare e morire. Volare via.
Fu in quell'istante di morte, di sofferenza, di indigestione di futuro che stavo facendo che mi accorsi che ogni secondo che passava era un secondo in meno.
Allora preso da una grande frenesia cominciai a sbattere il pugno sul legno di mogano, e ansimare e cercavo di non capire ma non riuscivo a non pensare.
La risposta che trovai fu nel mio passato. Nei miei ricordi. Lì quella farfalla non sarebbe mai morta. Erano i ricordi, che ti tenevano in vita, erano quelli che ti facevano sorridere. Era il secondo prima delle lacrime, l'istante prima del buio, la felicità prima della felicità.
E mi ricordai, allora, dei miei nonni, di quanto erano belli in quella foto da ragazzi in cui erano giovani e la loro pelle non presentava i segni del futuro. Quando sorridevano e i loro occhi rispondevano ad ogni domanda dell'universo.
Mi ricordai i giocattoli di quando ero piccolo,della mia mamma che me li regalava e di mio padre con cui giocavo. Mi ricordai della prima volta in cui sognai e della prima volta in cui piansi. Mi ricordai il mio cane che correva verso una palla, contento ed immortale nella mia testa. Impossibile morire nei miei ricordi. Impossibile cancellare la storia ed è per questo che fa paura. Incredibile il piacere che provai quando la mia mano ormai sudata e rossa e lacrime fredde mi toccavano il volto con un espressione sorridente ma triste, lasciò la presa. Il passato ed ricordi ti ammazzano e ti tengono in vita. Della bellezza dei fiori e del vento che muove i capelli. Mi calmai e smisi di piangere come un bambino, il quale ero. Lasciai la mia penna sul tavolo insieme all'inchiostro trasparente di cui era sporca.
Aprì la porta della mia modesta casetta e quella notte la luna era tanto grande e tanto bella che l'avrei voluta stringere. Mi stesi sul prato, fresco di rugiada e di brina. Mi ricordai di quanto ancora fosse bello ...

sabato 25 ottobre 2014

TEMPO DI EMOZIONI

Dovevamo e dovevano capire di cosa si trattasse quella roba lì.
Eravamo tutti uguali. Bianchi o neri. Lì ad aspettare qualcosa che mai sarebbe arrivato.
Viaggiavamo da giorni su quell’astronave.
Vestiti uguali, con gli stessi pensieri, con lo stesso taglio di capelli. Cambiava solo il volto.
Ognuno di noi aveva una cabina su quel veicolo speciale.
C’era un rubinetto e un letto. Niente water o lavandini o altro.
I finestrini erano chiusi e si poteva guardare fuori solo per dieci minuti al giorno.
Era un regolamento che avevano messo quelli che dirigevano, l’alta società.
Avevano paura che le persone potessero provare dei sentimenti o capire la bellezza guardando le stelle.
Quella sera non lo aprirono neanche, doveva essere successo qualcosa.
Il cibo era servito su piatti d’argento.
Il menù deciso da quelli dall’alto.
Tre pastiglie a ognuno.
Un giorno rosse, un altro verde oppure blu o bianche.
Si scioglievano sotto la lingua e dicevano che ti nutrivano.
Non avevano sapore e neanche odore. Tutto gli era stato sottratto.
Non si beveva niente, ti infilavano nel collo mentre dormivi dei tubi e spingevano dentro del liquido incolore.
Come tutto. Come tutti.
Avevamo l’anima senza spirito e le emozioni e i ricordi erano pallidi, anzi inesistenti, nella nostra mente vuota.
Avevamo vissuto un’altra vita.
Eravamo stati selezionati tutti insieme come uomini e donne più tristi del pianeta.
Spediti come pacchi postali nello spazio, verso Marte, a colonizzare e creare nuove unità famigliari.
I nostri ricordi erano stati presi dagli uomini sperimentatori.
Due punture e via. Niente più memoria.
Era l’ultima ora in cui dovevamo studiare elettronica e i nostri occhi correvano sulle righe tutte uguali, quando di colpo l’allarme comincia a strillare impaziente e forte e le nostre orecchie impassibili.
La voce dell’altoparlante era neutra e diceva di abbandonare l’astronave attraverso il sistema imparato.
Un buco era stato rilevato nella sala studi, quella dove mi trovavo.
Provavo un sentimento di paura. Quella la sentivamo. Ero molto spaventato dal fatto che potessi essere contagiato dall’aria esterna.
Troppo tardi, un soffio d’aria mi toccò la pelle e andò probabilmente da qualcun altro ma nessun altro lì c’era.
Tutti volatilizzati, scappati, ordinatamente, sistemati in file.
I miei occhi rimasero sbarrati contro la parete.
Aria, avevo sentito dell’aria sulla mia pelle. Era da quando eravamo partiti che non sentivo niente sulla pelle.
I ricordi mi ritornano, quasi magicamente, la mia vita in frammenti dispersi entrò nella mia testa.
Non ci rimane, scompare, ancora vuota e ora, comincia a riempirsi di nuovo, con l’aria, le emozioni felici, il coraggio, la bellezza, la poesia, l’amore, l’aria mi tocca.
Entra la paura, l’odio il terrore, la guerra, l’immaginazione e la fantasia.
Tutto dentro me non è mai stato.
Mi accorsi solo in quell’istante di essere vivo.


martedì 21 ottobre 2014

I miei nonni ora

Era il ventotto settembre 1914.
Avevo cinque anni.
Casa di mia nonna era calda e accogliente con la tavola pronta e apparecchiata modestamente ma con eleganza.
Fuori pioveva un po’ e il calore del caminetto ci scaldava a tutti l’anima e la pelle.
Stavo come sempre giocando con mia sorella e il mio grande nonno orso, quando passando vicino a un mobile che non avevo mai notato, mi incantai davanti ad una foto.
Era in bianco e nero,  di trent’anni prima. Forse anche quaranta, perché no cinquanta. Si sono sicuro, di cinquant’anni prima quella fotografia. Ingiallita ai lati ma perfettamente tenuta, lì nella sua bella cornice argentata e semplice. Immortalati dietro al vetro i miei nonni da giovani. Quando avevano vent’anni e la loro era una situazione di attesa, quando si è giovani, si aspetta sempre qualcosa. Si vuole andare avanti e loro lo stavano facendo. Si trovavano in cima ad una montagna a strapiombo sul mare.
Indossavano una camicia bianca e pantaloni scuri e mia nonna, un abito chiaro, sembrerebbe potesse essere verde, che arrivava alle cosce.
Il vento aveva scompigliato i capelli ad entrambi ma stavano bene quei capelli che seguivano la brezza marina.
Erano abbracciati e sorridevano. Felici come bambini, che bambini loro erano. Scalzi sulle rocce, ignari di quello che intorno a loro stava accadendo ma felici di esserci dentro fino al collo. Gli occhi erano illuminati di una luce speciale e si capiva che pensavano e credevano nella passione, nell’amore e nei sogni. Nell’aria che ti porta dove vuoi. I miei nonni lì, così, semplici ed istintivi.

“Rommy ci sei?”
Mia sorella più piccola mi stava chiamando. Andiamo a giocare. I miei nonni erano ancora lì, che giocavano e sorridevano e mi è bastata quella foto a capire che la vita è un gioco. Che è breve. Che loro due ora anziani, sono felici lo stesso, come anni prima. Che la foto non c’l’ hanno ora perché le foto si fanno prima di un viaggio, per vedere come si è all'inizio e poi alla fine per vedere come si è diventati. così almeno è nelle storie che hanno una fine, questa storia, queste vite, dei miei nonni giocherelloni e sorridenti, questo nei miei ricordi non finirà mai.

martedì 14 ottobre 2014

Quella sera a teatro.

Non poteva di sicuro capitare tutti giorni una cosa simile. Un fenomeno di quelle dimensioni e di quella spettacolarità è davvero incredibile.
Era una fredda serata di ottobre del 1920.
Tra una guerra che va e una guerra che viene il tempo andrà pure occupato in qualche modo.
Jack, un soldato della marina passeggiava per un vicolo di Londra.
La luce dei lampioni gli riscaldava l'anima e il grande cappotto di lana che gli arrivava alle ginocchia, la pelle.
Gli occhiali tondi che aveva sul viso erano completamente appannati e il suo taglio di capelli era fin troppo sobrio per essere un soldato. Di solito i ragazzi della sua età, arruolati erano fantasiosi nel modo di acconciarsi la testa.
Teneva stretto sotto un braccio un fascicolo ed era diretto verso il grande portone di legno che ogni secondo era più vicino a lui. Quello del teatro.
Era un grande teatro. Davvero enorme dentro e Jack era in ritardo per l'inizio dello spettacolo.
Poltrona numero diciotto. Fila sedici. Le luci si spengono nell'attimo in cui si siede.
Le luci non si riaccenderanno mai più per lui. Uno spettacolo di Shakespeare rimbombava nella sala. Attori meravigliosi e trama davvero profonda. Atmosfera magica quella sera. Fuori intanto, la neve cominciava a coprire cancelli, giardini, strade, tetti e la testa di qualche innamorato e di qualche ladro, che a due a due camminavano per la strada diretti a dormire nel loro caldo letto di fronte magari ad un bel camino che in quella sera, per Jack non bruciò più. Aveva ventidue anni. Amava il teatro, la musica, la letteratura e le feste.
Si era ammalato in guerra di una malattia incurabile.
Era arrivato il suo momento. Ci aveva pensato a come volare via. Shakespeare era stata la sua risposta.
Sulla battuta finale, l'ultimo battito di ciglia e un sorriso immenso stampato sul volto. Le guance erano coperte dalle fossette. Gli occhi, chiusi, anch'essi divertiti. Era davvero felice quel ragazzo nella poltrona diciotto. Poltrona di velluto rosso con una piccola targhetta in metallo. Le sue mani stringevano una lettera. La lesse alla fine della faccenda il commissario che era stato subito avvertito dopo che si era stabilito il decesso; dalla bocca del grande uomo calvo:
“Vi ho fregati tutti!! Sto sorridendo amici miei. Sono morto in questo momento. Voglio scommettere con chiunque che nessun altro sarà capace di morire e di divertirsi. Io ho vissuto amici miei. Si vive di più prendendosi una pallottola nella gamba di quanto scommetto, non abbiano fatto alcuni di voi in ottant'anni di timida vita.
Ci vediamo belli. Ciao amici miei”.
Io ero quella sera in sala. Avevo otto anni. Non ci credeva nessuno a quello che aveva scritto e che era successo. Non potevano crederci. Era impossibile per loro che guardavano Shakespeare senza capirci in realtà niente. Che andavano in chiesa perché lo diceva il giornale e che credevano nella guerra. Ma per il ragazzo lì, che odiava la guerra perché l'aveva combattuta, che amava Shakespeare perché non aveva studiato le forme o le rime o la ritmica. Ma che aveva studiato come apprezzarlo e che andava in chiesa perché era lì come tutti e credeva davvero. Lui era l'unico in quella sala che aveva capito qualcosa dello spettacolo più bello di tutti. La vita.

martedì 7 ottobre 2014

il nonno e Jul

Nonno“ chiese il piccolo Jul : “Perché proprio ciò che ami?
Perché alla fine è sempre quello che ti tradisce?”
Ecco piccolo …
A noi, a voi, a loro.
Che abbiamo versato sangue dolore e lacrime ma che abbiamo anche urlato, gioito, creduto, sognato.
Che siamo bagnati dall’emozione e che ci siamo spruzzati dall’entusiasmo.
Non trovavamo modo di alzarci,  non potevamo stare sulle nostre  ginocchia e il fiato per parlare era scomparso, proprio come la felicità dai nostri visi. Increduli. Non capivamo e non continuiamo a  capire. Le cose tristi, la tristezza è ciò che non riusciamo a capire. Quello che ami lo capisci invece e non riesci a smettere di farlo. Ci rimani attaccato fino alla fine. Tu provi a smettere, a non pensarci ma è impossibile dimenticare.
Il passato è quello che ci permette di vivere. Il passato è il secondo appena trascorso. È l’attimo di felicità prima delle lacrime. Il passato è troppo vicino a noi per provare a liberarsene. Così ci leghiamo addosso le nostre passioni, ricordiamo il passato, abbracciamo il presente e proviamo ad immaginare quale sarà il futuro, a sperare quello che vorresti che succedesse.
Ma è proprio quando pensiamo che sia impossibile che quello che ami non abbia un futuro tragico, drammatico. In quel momento quando tutti sono troppo tranquilli, sicuri di sé, arroganti. In quel momento serve un segnale che faccia aprire gli occhi, che faccia capire, che faccia male. Che ti provochi e che ti colpisca forte emotivamente. Questo è perché quando si vola, non si pensa. Quando si ama, non si tradisce. Quando si è troppo sicuri che qualcosa vada bene, quella andrà male. La troppa sicurezza, è colei che ti farà sbattere in quello che fai, ma la passione vera, quella incerta qualche volta, quella sarà la passione che ti farà sognare oltre tutto e oltre qualsiasi cosa. Ma sarà anche quella, con cui non sbatterai contro le cose. Ma morirai per lei. Non tornerai indietro. Non potrai anche se lo vorrai. Sai che è la tua vita. Jul, mio piccolo nipotino, fai quello che il vento ti dice di fare. Crea e vivi la tua passione. Vera e buona come le fragole.    

giovedì 2 ottobre 2014

GIROLAMO STAIN E I SUOI SENSI

Girolamo Stain era un italo americano dalle dolci e cortesi maniere, un bravo ragazzo, sempre perso nel suo mondo dove le fate ascoltavano voci di eroi nascosti nelle notti di estate e pregavano che i mostri non tornassero dalle tenebrose caverne.
Aveva circa diciotto anni e quella mattina stava camminando per la strada osservando pioggia che cadeva e una nuvola che intanto si stava arrendendo alla grande forza di re Sole.
Dai negozi uscivano profumi di scarpe, di cappotti, di pane, di zucchero. Profumi di profumi dalle profumerie e profumi di ragazze bellissime venivano trasportati sui terrazzi delle signore, che in tre sedevano a giocare a carte su una vecchia sedia di bambù e ricordavano i tempi passati, quando il marito era in vita e il figlio non era partito per la guerra da quindici anni.
Il rosso dei rossetti si mischiava a quello delle rose e creava un odore dipendente, che tu lo seguivi anche se non c’era.
Girolamo notò a terra dei pezzi di vetro e di vecchi vinili, di torte bruciate e di carezze di bambini. Nelle sue orecchie rimbalzavano i suoni delle bombe, che arrivavano dalla lontana guerra e nei suoi occhi splendevano cascate d’acqua immerse nella natura.
Le mani erano nere. I piedi senza scarpe e il volto con un espressione indefinita. Girolamo Stain si era appena accorto di tutta la gente che camminava di fianco a lui e a cui non aveva fatto caso. Chissà quanti di loro domani saranno cadaveri, chissà quanti di loro sono criminali, chissà quanti di loro sono innamorati, chissà quanti padri e quante madri per bene.
Allora una grande foglia gli accarezzò la sua bocca e un lungo tempo di silenzio passò per la sua mente.
Provò a parlare ma si ricordò dopo che non poteva. La bocca si apriva e si chiudeva.
Non importava, non poteva importare quello che lui fosse o non fosse capace di fare, l’importante era quello che lui credeva di poter fare. Qualcuno aveva fatto in modo che lui non potesse parlare attraverso un incantesimo, pensava Girolamo. Se avesse potuto parlare sarebbe diventato troppo importante e cattivo, o troppo importante e giusto. Lo prendeva come un segno del destino. Aveva capito, durante la sua vita, e finalmente quel giorno, che ciò che importava davvero era la poesia dei bei giorni passati. La tristezza non esisteva in lui che non poteva parlare con gli uomini. Ma esisteva nella sua mente, che sentiva i terribili rumori provocati dalla loro arroganza. Allora, tornava nel suo mondo di fate dove tutto era perfetto.

mercoledì 24 settembre 2014

POETA

Fu il mio ultimo viaggio in Africa e già ne avevo alle spalle una trentina circa.
Avevo ottant’otto anni e il medico mi aveva diagnosticato una malattia strana, la chiamava follia.
Non avrei più potuto viaggiare. Diceva che era matto ma quello che io vidi era tutto vero.
Tre uomini africani di una tribù amica, dove dormivo e alloggiavo, comandata dal mio vecchio pronipote. Un grande capo per tutti. Ecco. In quell’ultimo giorno in Africa, il diciottesimo dopo la mia partenza, tre uomini si misero a suonare un coccodrillo, un leone, una zebra.
Erano animali vivi, il loro torace risuonava, non gli facevano male. Creavano una musica bellissima e loro gli ringraziavano. Ho visto un coccodrillo fare le fusa e un leone leccare e scodinzolare. La zebra invece nitriva di gioia e più suonavano più il colore della loro faccia cambiava, diventava rosso, verde, blu. Si ingrandivano e rimpicciolivano e ogni tanto la loro testa si svitava dal collo, faceva delle smorfie e poi batteva a terra, cantava, suonava, scriveva.
Gli animali cominciarono a cantare pure loro e a fumare qualcosa ogni tanto.
Le grandi palme sulla mia testa felici di vederci ridacchiavano e la tribù, tutta la tribù e il villaggio, perfino le capanne. Tutto ballava freneticamente e velocemente. Le parole veloci scorrevano come i fiumi d’acqua che volavano. Le mie fantasie e le mie poesie sui fogli di carta andavano via con il vento. Dio mi guardava e io con gli occhi alti verso il cielo, con gli occhi che giravano a destra a sinistra e a terra, io pronunciavo parole d’amore.
I medici durante la mia visita non vollero credermi e mi rinchiusero in un ospizio. Non mi interessa niente. Me ne sto qui. Scrivo davanti alla finestra poesie. E sono sempre più sicuro di avere la mia ragione da folle vecchietto.  

mercoledì 17 settembre 2014

PSYCO

Martinder era segretario al New York Time. Un bel lavoro. Una bella famiglia, con due figli, maschio e femmina, dieci e dodici anni. Splendidi, bravi a scuola, curati, puliti ed educati. La moglie, di famiglia nobile e con un pacco di soldi da paura, non aveva bisogno di lavorare e così ogni sera, quando lui tornava a casa, c'era sulla tavola la cena pronta, la moglie truccata e pettinata, la tavola raffinata e figli con la bocca piena di buone notizie.
Ed era l'unica volta in cui parlavano con la bocca piena.
Johnnino, il figlio era capitano della squadra di baseball e Janine, la figlia era presidentessa del consiglio studentesco e grande giocatrice di scacchi e tiratrice a scherma.
Il fatto è che quella sera dell'otto maggio 1981 Martinder, sognava, o meglio, credeva di non sognare, sognando in realtà.
Forse quella sua vita, quel suo lavoro, tutto era falso. Gli venne solo il sospetto. Dopo che lui sarebbe morto, dopo che la gente si sarebbe dimenticata di lui, dopo cento anni, ciò che credeva di fare non sarebbe servito a niente, tutto, da cosa era nata la vita, Dio, il BigBang, la fede, la religione, il movimento, l'energia, il fuoco, la terra.
Ma poi si addormentò, aveva capito.
Aveva capito che ciò che contava, era quello che si faceva, era il presente, il futuro era già vecchio e il passato era troppo nuovo, troppo vicino, già fatto.
Che voleva però sapere com'era la vita nel resto dell'America, nel resto del mondo, al di fuori da lui. Voleva provare a vivere un po'. Anche a soffrire. A provare ciò che si provava fuori da quel posto chiamato casa. Da quel mondo immaginario in cui credeva di vivere, da quel mondo nella sua testa.

martedì 9 settembre 2014

DIREZIONE ROSSA

Stavo camminando per la strada, direzione rossa.
La migliore di sempre quella direzione. Avevo otto anni e avrei incontrato mio padre lì. In direzione rossa. Era seduto su una sedia, con un gran sorriso sul volto e stava parlando con un uomo grande. Stavano sistemando delle faccende di lavoro e io adoravo sentirli parlare di lavoro.
Mi sedetti a terra, tirai fuori le mie macchinine dallo zaino e mi misi a farle rombare, derapare e rovesciarsi.
Poi il vento si alzò e le nubi arrivarono a coprire il sole. La bandiera grande con una foglia e come una foglia, appesa in direzione rossa cominciò a sventolare. Il vento muoveva i capelli di mio padre e i miei. Abbastanza lunghi da muoversi con un soffio.
Quelli mi rimanevano sempre attaccati, come le due macchinine con cui giocavo. Rimanevano attaccati come le gomme e come la passione nel mio cuore.
Babbo era pronto ad uscire dalla direzione rossa e farla andare più forte. Pronto a fare qualcosa di grande quel sabato.
Babbo uscì dalla porta grigia e si sedette dentro una delle mie macchinine, come in un sogno, si era rimpicciolito, era niente rispetto a quel grande amore che incombeva dentro egli. I guanti e il vestito, anch'esso rosso, come la direzione erano ben attillati. Entrò sul grigio dell'asfalto quel sabato pomeriggio. Non rientrò mai più. Restò fuori a girare, è fuori che sta ancora girando se ci si guarda bene. Se si ascolta poi attentamente, beh allora si sente anche il suo sorriso, un sorriso che parlava da sé.

venerdì 29 agosto 2014

I RAGAZZI DI LAGGIÚ

Buongiorno ragazzi.
Scendete dai letti, fatevi la barba e sfogliate qualche giornale. Accendetevi una sigaretta o fatevi una partita a carte. Se guardate ben il cielo oggi è un ottima giornata per combattere.
Anche se so molto bene che non esistono giorni buoni per la guerra, ma esistono giorni migliori di altri, in cui magari la voglia della pace è maggiore e siete più carichi, tipo quei burattini che escono dalle scatole con il volto da pagliaccio che sembravo venir fuori dai racconti di Stephen King. Inquietanti quei giocattoli perfino per un adulto. O magari ragazzi della guerra anche per voi, anche se siete dei duri è!
Beh su quello non c'è dubbio ragazzi miei, bisogna davvero essere forti per fare quella roba lì.
Allora noi da qua, vi mandiamo tutti un grande abbraccio ragazzi diretti a nord dell'est, più verso ovest però.
Sta sera quando tornerete a casa, telefonate ai vostri figli. Alle vostre madri e ai vostri padri. Alle mogli e alle fidanzate e ridete, divertitevi.
Per chi oggi invece non tornerà, un grande abbraccio comunque e un saluto di arrivederci ragazzi. Non ci si dimentica molto spesso di voi uomini della pace, della guerra.
Se non sapete che fare sui camion guardatevi le mani e rendetevi conto che sono diventate un po' più rugose e scure, forse con qualche callo in più da quando siete partite, ma non preoccupatevi perché chiunque invecchia, perfino Brad Pitt invecchia. Solo Ecclestone, con i suoi capelli bianchi cacca di piccione sembra non invecchiare mai.
Attenti a dove metterete i piedi quando scenderete per combattere ragazzi. Potreste incontrare qualche vostro superiore e calpestarlo, anche se la vedo difficile, per il semplice motivo che lui non si troverà lì quando ci sarà da morire, da perdere, da sporcarsi di sangue e da urlare. Ma magari se vi osserverete le gambe con attenzione, vi renderete conto che sono diventate più grandi con qualche cicatrice in più e pronte a correre veloci ragazzi. Correte verso la guerra per scappare da essa senza tradire però.
E alla fine tornerete a guardare il cielo, sempre il cielo. Tutti voi osserverete le stelle la sera e vi accorgerete che saranno unite da qualche arcobaleno ragazzi. Non abbiate paura amici miei. Anche se è facile dirlo da qua. Abbiate quella fame e quella rabbia negli occhi, che si puo vedere solo in un soldato amici miei. Se pur ragazzo un soldato. Se pur bambino soldato. E allora proteggetevi e credete in qualcosa. Non dico in Dio. Credete magari in uno sport. In una moneta, in una bandiera o anche solo in voi stessi amici miei. Ma credete di tornare a guardare il cielo e di non morire con la faccia nel fango. Credete in ciò che non vi appartiene, credete anche nella libertà amici miei, perché non so quando, non so perché, neanche dove vi posso dire, ma quando arriverà, beh allora ragazzi di quel posto lontano che conosco, allora ognuno di voi avrà fatto qualcosa per cui verrà ricordato.

Ci vediamo a casa amici. Ci vediamo a casa tutti quanti.

mercoledì 27 agosto 2014

UN TARDO SORPASSO IN UNO SPERICOLATO POMERIGGIO

La bici di Girourdè era pronta, pulita, il cigolio era stato limitato e aveva una gran voglia di andar forte.
Correva con gli amici il pomeriggio. Erano tre. Girou, Philip e Francis.
Le bici alla fine, se ben curate e messe a posto, erano quelle che erano.
Ma non importava molto.
Il fatto mozzafiato si svolse al settimo giro del cortile di gara quattro.
Philip è davanti. Mancano una sessantina di metri all'arrivo.
Curva stretta , è l'ultima poi volata spaventosa sul rettilineo. La curva è delimitata dal muro di una casa, con l'intonaco un po' rovinato.
Francis è rimasto molto indietro, si è steso per terra la quinto giro e non ha più recuperato.
Ora bisogna far vedere ciò di cui si è capaci.
Tre metri alla curva. Philip butta l'occhio a Girou. È attaccato alla gomma. Sa benissimo che non lo avrebbe lasciato vincere. Ecco l'anteriore che prova ad uscire tra il muro e la catena dell'altra bici. Il corpo del corridore, non ci starebbe mai, troppo stretto lo spazio per provare un sorpasso. Philip chiude con la gomma dietro mettendo il suo mezzo di traverso sull'asfalto rovinato. I sassi si alzano da terra e la gomma lascia un segno. Francis perde il posteriore e fa un volo di tre metri per terra. La bici è un cartoccio. Il “pilota” esce illeso.
Allora, non c'è più spazio e Girou cambia lo specchio d'entrata della curva. Infila Philp a destra ma quest'ultimo bravissimo gli torna a sbarrare la strada. Pochi secondi e ci si lancia nel rettilineo. Il telaio in ferro di Giroù si muove agilmente cambiando nuovamente direzione. Le ruote che sfregano tra di loro e contro il muro. Tre costole fratturate per Girou che sbatte sul cemnto della casa, screpolando l'intonaco bianco. I sassi per aria che finiscono negli occhi. Le dita maciullate di entrambi contro i manubrio dell'avversario e poi la curva da cui Girou esce vincente per scatenarsi sul rettilineo con tutta la sua rabbia e la sua violenza. Gli occhi felici da ragazzo vincente e il corpo distrutto da guerriero perdente.

mercoledì 20 agosto 2014

LA BICI DEL CAMPIONE


Girurdè Rossi correva per amore. Lui amava follemente il mondo delle catene, delle gomme, dei cambi e dell'olio. Qualsiasi cosa con cui andare forte la amava. A partire dalle moto grosse a finire ai tricicli per i bambini. Così un giorno, non potendo permettersi le gare in moto o una bici da corsa la bici la costruì.
Raccolse tutti i pezzi di ferro e i tubi che trovava per il cortile e per la città. Arrivò a scavare otto buche di una ventina di metri di profondità. Una volta trovati rubò il saldatore a suo padre e cominciò a mettere su i pezzi, più o meno come si ricordava. Aveva creato un catorcio di telaio da far paura. Davvero uno schifo. A lui piaceva però e di sicuro nessuno poteva dire niente a un bimbo di otto anni.
Per le gomme aveva intrecciato della corteccia di alberi, le gomme forate di una bici buona sarebbero state di lusso. La sella … beh per quella venne aiutato dal gatto del vicino. O meglio, per farla usò il gatto del vicino, anche se il nonno gli aveva detto che non era poi una grande idea. Ma a un bimbo di otto anni che gli vuoi dire.
I pedali, quelli erano lusso puro. Vecchi pedali di una bici carbonizzata in discarica. Infine come catena prese quella che aveva tolto dal collo del cane, che era scappato e successivamente stato ritrovato in stato confusionale.
La bici era pronta per partire. Un ammasso di lamiere e legno che non avrebbe mai potuto fare mezzo metro … era quello che credevano tutti. Cappellino all'indietro. Tutto il paese a osservare Giru e lui che veniva giù come un folle dalla discesa del centro. Il piccolo però dimenticò di mettere i freni. Partì via e non si vide più per anni. Finché un giorno, tutti a guardare il giro d'Italia, sul gradino più alto, dopo l'ultima tappa riconobbero un volto famigliare.

domenica 17 agosto 2014

MOSTARDA SU UN PICCIONE CRUDO

Era una mattina di Maggio, camminavo per un piccolo vicolo di Roma mi sembra e sulla mia destra un piccolo ristorante.
Era l'ora di pranzo e non ci vedevo più dalla fame. Mia suocera mi stava completamente assillando che voleva mangiare e che aveva fame. Mia moglie aveva già speso cinquantamila euro in vestiti firmati e i miei figli, FU e TJ si stavano picchiando a suon di sanpietrini che toglievano dall'antica pavimentazione. Io provavo a parlare di pesca con mio suocero.
Insomma la domenica perfetta, per eccellenza.
Entrammo tutti e sei nel piccolo localino arredato con mobili rustici e pareti in legno.
“Un tavolo per sei”.
“Certo, siete proprio fortunati, è l'ultimo rimasto”.
Il locale era pieno di gente che parlava e il cameriere con passo sicuro ci portò giù per una rampa di scale.
Due muri in pietra umida stringevano un tavolo anch'esso di pietra, cancellando i capotavola.
Il ragazzo con il grembiule e la camicia non ci lasciò neanche il tempo di provare a lamentarci per il posto che salì al piano di sopra.
Eravamo tre di fronte a tre, i miei piccoli stupidi continuavano a tirarsi della roba e dovetti sequestrargli i coltelli.
Tornò solo dopo dieci minuti un altro signore, alto coi baffi a prendere le ordinazione.
“Pizza”.
Dico io per ultimo.
“Come la vuole signore?”.
“La più buona che avete”.
“Faremo del nostro meglio signore”.
E si allontanò.
Passò circa una mezz'oretta e mia moglie aveva già picchiato i marmocchi e discusso con sua madre.
Il nonno giocava a carte da solo in un appassionante solitario e io guardavo fisso la punta delle mie scarpe con lo sguardo di uno che è condannato a morte.
Le mani giunte come se stessi dicendo il rosario.
Arrivano le portate:
I funghi all'aceto per i miei figli.
Pomodorini cotti con ketchup.
Tre pesci spada, crudo, cotto e ben cotto per il nonno.
Una fettina di pane con olio e sale per la nonna.
La mia pizza ancora non si vede.
Aspetto che gli altri abbiano finito e solo quando mio suocero mangia l'ultimo pezzo, apre la porta il cameriere con la mia pizza.
Il posto faceva schifo, la giornata faceva schifo ma finalmente una bella pizza.
“Ecco la specialità della casa, ci scusiamo ma la pizza era finita e avevamo avanzato qualcosa dal nostro fornitore, il barbone qui all'angolo”.
Lasciò il piatto sul tavolo e uscì dalla stanza in una sonora risata.
Un piccione. Non spennato. Non pulito. Ancora insanguinato era stato servito sopra un piatto cosparso di lattuga andata a male e bucce di banane.
Il piccolo corpo ancora con le interiora era stato riempito di mostarda.
“Allora non mangi tesoro? Avevi così tanta fame”.
Salta su mia moglie.
Assaggio il primo morso e provo a non vomitare.
Al secondo non riesco ad evitare di espellere ciò che sto mangiando.
Al terzo credo di essere morto.

domenica 10 agosto 2014

Rugby al supermarket

Corsia quattro, secondo scaffale sulla destra, quello dei surgelati.
Non dimenticherò mai quel giorno del '78 quando io, povero cassiere incontrai quel gigante.
“Dove sono i calamari?”
chiese con tono gentile.
Io, piccolo, smilzo e con le braccia grosse come un suo dito risposi con una vocina che non so come fece a sentire.
“Sono al quinto scaffale signore”.
E se si arrabbia … forse non vuole essere chiamato signore … panico!
Ciò che mi frullava nella mia testa in quel momento.
Grazie”.
Si girò e davanti a me due spalle di dimensioni orbitali.
Chissà cosa faceva per essere così grosso quello lì. Era più forte di me il desiderio di sapere come faceva … presi un po' di coraggio, mi tirai su i pantaloni, mi stirai la camicia con le mani, petto in avanti e domandai.
Scusi signore cosa fa per essere così grosso?”.
L'uomo con i capelli alle spalle e le spalle enormi, e il naso un po' schiacciato, ma pur sempre un bel signore sulla quarantina, forse allora ragazzo che metteva una tremenda paura a uno come me mi spiegò.
Io gioco a rugby amico mio”.
Quello sport pericoloso in cui tutti si picchiano?”.
Allora la sua fronte si aggrottò e il viso diventò più scuro, il tono di voce alterato.
No, non è quello sport”.
Capì dal tono che cercava di spiegarmi qualcosa.
Allora, lui cominciò a parlare, ma io non ascoltai. Mi fermai a guardare dentro i suoi occhi per capire cosa aveva visto.
Si vedevano campi e persone con divise, sangue e terra, fango e pioggia, saliva e tatuaggi, paradenti e bestie di uomini. Poi guardai ancora un po' e vidi eroi e arcobaleni, fate e cavalieri, lealtà e coraggio, piccoli uomini con piccole spalle, macchiati anch'essi di sangue e di un amore infinito.
...E questo è!”.
concluse deciso l'omone.
Non passò molto tempo che io e lui ci rincontrammo su un grande prato, che non ricordo come fosse messo. Ricordo solo che un uomo più basso di me, più magro di me, mi portò la maglia numero undici. Ed ebbi il privilegio di giocare, io, commesso, magro e basso, accanto a quel gigante di due metri che mi strinse l'occhiolino.

sabato 2 agosto 2014

Materix Moxyt

Materix Moxyt si trovava esattamente al centro di un piccolo pianeta a nord dell'orsa maggiore.
Aveva tutte le possibilità che voleva di avere soldi e fama, laggiù, in quel piccolo puntino verdastro che vedeva ogni sera prima di addormentarsi sul suo giaciglio d'erba dorata.
Era una di quelle persone normali, lavorava per la Nasa ed era stato mandato sette anni prima nello spazio alla ricerca di qualcosa di nuovo, magari qualcosa impossibile da vedere dalla terra.
Non era mai più tornato, nessuno sapeva più niente di lui, ma lui sapeva tutto di tutti.
Sapeva che era considerato morto, siccome una volta, un palloncino rosso a forma di cuore con la scritta Materix era volato proprio vicino al piccolo pianeta in cui si era stabilito.
Lui non sapeva come faceva ad essere ancora vivo, non sapeva nemmeno cosa mangiava.
Coltivava un piccolo orto e si era portato con sé lassù un sacco di bei ricordi.
Delle sere con gli amici, delle risate a giocare a carte, delle lettere senza risposta, delle canzoni, dei sorrisi delle sue persone.
Aveva trovato lì su quel suo piccolo pianeta, insieme a qualche animaletto che poteva vagamente somigliare a un cane terrestre, aveva trovato lì ciò che sulla terra aveva cercato ma sempre senza buoni risultati.
La piccola casetta era scavata dentro una grande grotta e ogni tanto, sempre in perfetto orario però, beveva un sorso di tè mentre guardava le stelle cadere seduto sul suo piccolo pianeta.
Qualche stella lo abbagliava per la sua bellezza e maestosità, illuminate di gioia lasciavano nello spazio blu, come il mare laggiù una striscia di magia gialla ...

sabato 12 luglio 2014

DREAMS of DRIVERS

Lex guidava la piccola bicicletta nel cortile di casa.
La amava tantissimo, era una bici bianca e rossa con una lunga sella e un manubrio largo più delle sue spalle.
Aveva sempre i capelli spettinati, lunghi a coprirli le orecchie e di un castano scuro.
Gli occhi del tredicenne dentro il casco erano cattivi e arrabbiati. Era un casco che gli regalarono i suoi nonni tempo fa, quando ancora era piccolo.
Era un casco blu che gli copriva totalmente il volto, non aveva visiera, proprio per quel motivo si vedevano bene i suoi occhi dolci e cattivi allo stesso tempo. Gli occhi di un ragazzo e quelli di un pilota.
Aveva ogni attimo stampato nella mente, stampato nel sorriso e nell'espressione del naso.
Faceva avanti e indietro da una discesa di asfalto disfatto mescolato a della sabbia che impediva di frenare bene.
A proposito di freni, funzionava solo quello destro, ma come funzionava quel freno non funzionavano sei paia di freni da bici da corsa.
Quella piccola bici sarebbe stata adatta a un bimbo di cinque anni ma lui … lui riusciva a incastrarci le gambe e ad andare forte su piste mai viste, mai toccate, contro avversari mai visti e mai esistiti.
Lui era uno dei tanti, uno dei ragazzini di quel paese e di quella nazione che un giorno sognava di diventare pilota.

domenica 6 luglio 2014

BLACK JAZZ FREE BAND ... ANDY MARTIN

Andy Martin era un ragazzo dai capelli rossi tinti che fumava una volta al giorno una sigaretta, una di quelle che estraeva dal pacchetto Marlboro.
La cenere gli cadeva sulle scarpe che si muovevano al ritmo dei piedi che calzavano un bel quarantotto mentre lui avrebbe dovuto portare solo uno scarso trenta nove.
Le leggende dicono che ci stesse dentro quelle scarpe per il semplice motivo che erano piene di mozziconi dal lontano '37 e dire che lui era nato solo nel 1940. Il 31 febbraio del 1940.
Sua madre gli aveva comprato un basso ancora prima che lui nascesse e appena respirò, e non respirò aria pura ma aria firmata sigarette del padre, appena aprì gli occhi e mosse le mani cominciò a suonare il suo meraviglioso e costosissimo basso.
Così almeno racconta sua madre ogni qualvolta qualcuno aprisse il discorso “Suo figlio se la cava con la musica”.
In realtà probabilmente Andy non era nato ne il 31 febbraio ne aveva mai toccato quello strumento prima dei quattro anni quando cominciò a suonare nella migliore scuola del paese. Dove prendeva lezioni dal miglioe maestro di musica del paese.
Andy era qualcosa di sublime quando delicatamente sfiorava le corde con le mani pulite da bravo ventenne Inglese.
Andy è l'ultimo componente in ordine sparso della Black jazz Free Band.
Era quello che quando si suonava, che quando si suonerà, che quando si suona, ha sempre gli occhi coperti da un paio di occhiali col telaio nero e le lenti rosa, attraverso i quali la vita ha tutto un altro gusto.

lunedì 30 giugno 2014

BLACK JAZZ FREE BAND ... TOBY

Toby aveva la faccia da uno che ne sapeva eccome della vita.
Toby era un hippie sognatore che si godeva veramente tutto ciò che aveva e spendeva i soldi senza freno.
Toby aveva in camera sua a casa di sua madre un enorme poster dei Beatles che copriva completamente tutta la parete. Conosceva ogni singolo pezzo dei quattro di Liverpool.
Toby con lo stile di quella band non centrava un granché, quelli suonavano Jazz e invece lui suonava, o meglio cantava qualcosa che con il Jazz non aveva molto a che vedere.
“Sei un hippie e noi qui gli hippie non gli prendiamo”
tuonò Peter Cry la prima volta.
“E tu che ne sai … magari è bravo!”
Si intromise Gary Wilson.
“Sentiamolo”
Disse Billy.
Toby si mise a cantare con una voce sottile e grossa allo stesso tempo. Una voce che faceva venire i brividi e risuonava forte tra le pareti della casa delle signora Green.
Toby cantò i primi due versi di Hey Jude poi Billy lo fermò.
“Questa non è la musica che suoniamo noi. Neanche quella che mai canteremo. Noi cantiamo la musica degli schiavi e quella dei sognatori. Dici che ne saresti capace?”
Toby si guardò le scarpe e con aria da sapiente rispose intonando una canzone di libertà che cantavano nelle piantagioni del Mississipi.
Billy non gli lasciò il tempo di finire neanche questa.
“Di là c'è il microfono e tu cominci subito a provare”.
Si mise a ridere e gli batté il cinque.
“Ragazzo mio … John Lennon ti verrà a chiedere l'autografo”
Disse Peter Cry che alla fine a prenderlo era stato convinto dalla faccia sorridente del miglio saxofonista.

martedì 24 giugno 2014

BLACK JAZZ FREE ... DAVIS GREEN

Davis Green era alto, bianco, portava un paio di occhiali tondi e lavorava come avvocato.
Padre di tre figli e bravo marito.
Era la perfetta e classica famiglia americana, una di quelle famiglie modello. Avevano perfino il cane che non osava mai aprire la gamba per imbrattare la moquette rossa che si trovava sul pavimento.
Davis era un uomo acculturato e ben istruito, uno stipendio alto e un giardino ben curato.
Un vero e proprio uomo.
La moglie Jaline era francese e la sua pelle chiara coi capelli biondi ben pettinati e cotonati si intonavano a pennello con le pareti chiare della villetta in cui vivevano.
Nessuno però avrebbe mai detto che Avv. Davis Green suonasse meravigliosamente la batteria.
Davis Green era davvero il migliore di sempre a suonare la batteria.
Sedeva sul seggiolino ben vestito, con la giacca nera e la camicia bianca che sfilava meravigliosamente sui fianchi.
La cravatta al collo si muoveva poco ma quelle bacchette sui tamburi si muovevano eccome.
Era sempre composto. Non urlava e non si agitava mai neanche a suonare la batteria.
Mi ricordo la volta in cui il chitarrista si girò e gli mise in testa una fascia a stile Rambo.
Davis minacciò di lasciare il gruppo.
Alla fine rimase convinto da Billy che ti faceva sempre cambiare idea.
Davis Green era davvero sempre Green, sempre candido e pulito.

BLACK JAZZ FREE ... JEREMY COLLINS

Jeremy Collins era un nero di Philadelphia. Aveva circa venticinque anni e guidava una Ferrari rossa che diceva di aver comprato ad un asta per venti cinque dollari.
Era un matto la legare.
Fu arrestato due volte perché girava ubriaco e nudo sulle rotaie delle metropolitana.
Un ragazzo sulle quali giravano strane voci, si diceva che forse era nel giro …
peò un ragazzo semplice, capace di trasmetterti una gran voglia di vivere e di non andare mai a letto.
Jeremy suonava la tastiera. Diceva che gli aveva insegnato Mozart quando era piccolo e poi diceva che aveva aiutato a dipingere la Gioconda.
Insomma, era davvero fuori.
Però quando si trattava di suonare la tastiera lo faceva come un Dio, come qualcuno che è nato con quella roba in testa, con le note incise nel cervello.
Jeremy era rimasto orfano durante un incidente aereo dove lui era l'unico soppravvissuto. Uno dei tanti casi disperati che se non fosse per la musica, ma forse a salvarlo nopn bastava neanche quello, sarebbe già morto ammazzato.
Jeremy era davvero un folle.

lunedì 23 giugno 2014

BLACK JAZZ FREE... PETER CRY

Peter Cry era il manager dei Black Jazz Free.
Era un ragazzo bianco sulla trentina, non aveva una vera e propria casa e indossava sempre un cappello nero ed una lunga giacca di pelle che strisciava per terra.
Peter viveva in un centro assistenza poveri, una cosa del genere e la famiglia Baker l'aveva preso a vivere sotto la loro custodia.
Da lì cominciò la sua vita come manager, siccome Billy ne cercava uno.
Portava degli occhiali con un telaio di dimensioni sproporzionate e non riuscivi mai a vederlo senza una sigaretta in mano, fumava per lo stress e per la fretta. Fumava perché diceva che fumare lo faceva più intelligente e aveva più un aria da manager di una grande band.
Cry era il cognome falso, in realtà si chiamava Peter Baker, ma siccome una notte di primavera gli amici lo trovarono davanti alla tv a guardare film da quasi trenta due ore di fila, gli occhi piangevano senza finire e fu chiamato Cry.
Era un ragazzo che ci sapeva fare di brutto a gestire tutto e gli piaceva anche. Lui un posto dove suonare lo trovava sempre.
In più usava spesso per esprimersi frasi che gli saltavano in mente. Frasi con una dolce dose di poesia e di amarezza.

BLACK JAZZ FREE ... GARY WILSON

Gary Wilson era il secondo componente in ordine sparso della Black Jazz Free Band.
Gary era il più giovane, aveva sui diciannove anni.
Era un ragazzo bianco che viveva in una casa normale con una famiglia normale e aveva una vita normale.
La madre aveva un passato da rock star e il padre, bravo uomo, tutto composto faceva il medico nell'ospedale pubblico del paese.
Gary aveva dei lunghi capelli biondi ossigenati e le sopracciglia nere. Indossava sempre e dico ogni santo giorno dei jeans aderenti e una camicia bianca, che ogni tanto fuori da qualche pub imbrattava di sangue.
Il fratello era laureato in una delle più prestigiose università americane. Le sorelle, dodici e venti tre anni erano segretaria e futura pilota di formula uno.
Gary non era del tutto nelle righe. Il dottore diceva che aveva una malattia particolare, che ogni tanto, preso dal nervoso aveva degli impulsi di rabbia. Purtroppo gli impulsi che aveva erano di tipo assassino e ogni tanto gli scappava la mano e per due o tre giorni giocava con uno yoyo dietro le sbarre.
Gary sapeva fare una sola cosa nella vita, perché davvero non sapeva fare altro, suonare la chitarra.
Il fatto è che come la suonava lui, quella diavolo di chitarra non la suonava nessuno. La madre lo incitava da un po' ad entrare in una band e alla fine, il suo desiderio per il figlio si avverò.
“Che dici Peter (manager) lo prendiamo dentro?”
“No. Non lo prendiamo dentro se mi riesci a dare tre buoni motivi per non farlo”.
In realtà di motivi buoni per non prenderlo dentro ne esistevano tanti ma a Peter Cry piaceva usare queste frasi per enfatizzare il tutto.

domenica 22 giugno 2014

BLACK JAZZ FREE ... BILLY

“Billy!”
“Eccomi!” e strizzava l'occhio.
Batteva le mani grandi e gli scappava una risata.
Muoveva il corpo come per ballare e poi si sedeva a tavola.
Billy era un gigante d'uomo senza un pelo sulla faccia. Un signore sulla cinquantina, afroamericano che ogni tanto, nelle occasioni importanti si accendeva un sigaro.
Una di quelle persone con cui parlavi delle intere serate di sport e di basket, che secondo lui era più che uno sport, e una di quelle persone con cui parlavi intere serate di musica.
Se non ne parlavi te la faceva sentire, si perché ogni tanto nelle serate d'estate tirava fuori il suo sax e con la faccia un po' arrossata dal vino e dalle battute si metteva a suonare. Lì diventava serio però, ma lo vedevi dall'espressione delle mani e da quelle degli occhi che si divertiva a suonare.
Per suonare si metteva sempre la sua giacca di camoscio fresca di lavanderia.
Finito di suonare rideva e ti batteva il cinque.
Ogni tanto veniva addirittura chiamato a suonare nelle feste della città e lì con la sua band, tutto elegante profumato di colonia, lì faceva impazzire tutti.
Tra un assolo e l'altro raccontava una barzelletta e tra un pensiero che passava e una vita che finiva si beveva un bicchiere alzando la mano finché Dio lo permetteva per poi riabbassare il bicchiere e far sbattere leggermente il cristallo contro i denti.
Non gli interessavano i soldi e neanche il successo. Ciò che gli fregava nella vita era suonare del Jazz con i Black Jazz Free.


sabato 14 giugno 2014

IL RUGBY

Scrivo questo racconto, questa lettera, questa storia per tutti coloro che hanno giocato, che giocano e che giocheranno a rugby.
Il rugby è uno sport diverso da tutti gli altri.
Non dico che sia migliore o peggiore. Il rugby è quello sport che ti permette di concludere grandi azioni singolari e grandi mete di squadra.
Uno sport considerato violento ma in realtà di una dolcezza incredibile. Ti culla in un mare di emozioni meravigliose e poi di colpo, proprio quando meno te lo aspetti ti schianta contro uno scoglio dal quale però tu verrai via per continuare a nuotare.
Il rugby è uno sport dove non importa come sei, importa chi sei.
Importa il fatto di restare sempre sul pezzo, di avere la testa a posto e aperta, pronta a reagire qualsiasi cosa succeda.
Passano i palloni e passano gli anni, ma chi è stato grande non passa mai. Perché un rugbista non muore mai. Viene ricordato nei segni dei suoi tacchetti sul campo che se anche sono scomparsi alla vista loro ci sono. Rimane il sangue delle ginocchia sull'erba fresca e la saliva contro la terra secca.
Il rugby è uno sport che ti allena alla vita, al combattere e alla fine ad uscirne a testa alta. A farti male e a sentirti Dio.
Uno sport giocato da donne e poi da uomini. Uno sport che deve continuare, che deve dare un segnale forte, uno sport sotto al quale si possono concentrare i sogni di nazioni intere, di città e di piccoli paesi.
Uno sport che non è del tutto uno sport.
É più un qualcosa per cui vivere. Questo è il rugby e perfino qualcosa di più che non so come scrivere. Forse basterebbe dire:
“Vento tra i capell a occhi chiusi nella notte scura”:

venerdì 13 giugno 2014

STORIE DI MITI: JESSIE...


C'è per chi correre è una punizione, c'è chi correre lo odia.
Ma a parte questi due casi, c'è chi di correre non smetterebbe mai.
C'è chi si fermerà a bere e poi continuerà, chi faticherà ma ci crederà.
Così è già successo.
Erano le olimpiadi del 1936, i tedeschi dovevano, erano costretti, non potevano fare in altro modo, vincere tutto.
Il cancelliere tedesco sedeva nella sua grande tribuna.
"La razza ariana è superiore, vincerà tutte le prove"
La più grande fesseria che sia mai stata detta nella storia dello sport.
C'è la gara. La gara che tutto il mondo aspetta. La finale dei cento metri maschili.
Lo starter ha la pistola in mano. Si sente sicuro, sa che i tedeschi non sbaglieranno, anzi faranno anche il record del mondo.
Si sbaglia invece.
Si comincia e si finisce la gara in dieci secondi.
Hitler guarda chi ha superato il traguardo per primo e vede un tedesco. No, vide male, anzi forse non lo vide neanche.
Il piccolo afroamericano con i denti un po' sporgenti e la statura proprio non nella media ha vinto.
"Come?"
"Ha vinto un americano..."
"No. Non è possibile"
10"2, i secondi che bastano a cominciare un cammino verso la libertà!

STORIE DI MITI: ARU



Scrivo questa storia per un amico.
Io non seguo il ciclismo e tanto meno so chi è Aru.
Mi hanno detto che è arrivato terzo nel giro d'Italia e io ci credo...
Scrivo però questa storia per chi ride sempre, per chi delle sue passioni non sa che farsene e per quello che le passioni le coltiva fino a farle diventare grandi amori.
Per chi va forte in macchina e per chi lo fa in bici.
Per continuare a parlare con un bicchiere tra le mani, in quelle sere di salite pericolanti e di disastrose discese.
In quelle sere in cui qualcuno si alzerà in piedi sulla sella, guarderà il cielo credendo che Dio si trovi lì, butterà in avanti e poi in alto anche le braccia e con un urlo lascierà andare, lascierà uscire e correre fuori quella grande passione.
Per coloro che negli anni vestiranno di rosa e per coloro che il rosa non lo vedranno mai.
per chi ci crede e per chi ha negli occhi due copertoni forati.

martedì 10 giugno 2014

STORIE DI MITI: Super Eroi

Nascono delle menti di uomini semplici. Di uomini normali. Diventano super.
Vengono disegnati in pagine e visti da milioni di persone.
Vivono per qualcosa di vero e di reale. Per il sogno di lottare contro la criminalità e per ottenere la giustizia.
Negli occhi, quelli fatti a pennarello e poi colorati vi si intravedono grandi sogni.
Ognuno di loro. Ognuna di quegli uomini che nascono sulla carta reincarna i sogni di uomini fatti di carne.
Volare e incenerire. Correre e spiccare.
Essere tranquilli e poi fare cose incredibili.
Intrattenere adulti e stupire piccini.
Essere un esempio per tanti e poi essere imitati da fantocci in televisione.
Questi sono i super eroi. Coloro che hanno segnato le epoche e gli anni e segneranno quelli di chi verrà.

mercoledì 4 giugno 2014

STORIE DI MITI: GENTE

Mi è capitato spesso nella mia vita di incontrare persone strane. Persone ubriache, clown, teppisti, piromani, corridori, giornalisti, piloti, tifosi e amanti.
Tutte persone che avevano a che fare con qualcosa che si chiama mondo.
Persone che non avevano meta. Che non avevano casa o religione.
Mi è capitato perfino di incontrare persone ricche e potenti. Alcuni pensavano di poter comandare il mondo. Altri di poter vincere. Altri ancora di poter fuggire da un destino già segnato.
Altri che dovevano correre per la loro libertà o la libertà di generazioni intere. Colori e fotografie.
Descrizioni vere e e false, descrizioni di fiori. Grandi e muscoli e piccole menti. Grandi moto e piccole altezze. Grandi montagne e piccole case.
Sognatori  che credevano in idee false e in incredibili verità.
Aquile e falchi sfrecciavano nel cielo, in un cielo blu, ricco e aperto.
In un cielo di legalità, in un cielo di giovani sconvolti. Perché la vita è bella e adesso non ci resta che piangere.

giovedì 29 maggio 2014

STORIE DI MITI: BOB...



Canzoni rivoluzionarie, canzoni vere, canzoni che ti si ripetono dentro la testa in continuazione,
sbattono sulle pareti e sulla corteccia celebrale, rimbalzano e si conficcano violentemente nella tua anima.
Di lì quella roba, quelle parole, quei testi, quel ritmo, quella musica... di lì non se ne vanno più.
Bob era così. Ti dava quella carica vera. La voglia infinita di ballare, di ballare il reggae, che in realtà è la musica su cui Dio balla.
Bob Marley è un esplosione di colore di vivacità e di grande voglia di vivere.
Di saltare per tutta la vita con i capelli che ti sbattono sul collo, ti finiscono sul volto, alzi le mani, lo sguardo, accenni un sorriso e cominci a muovere i piedi seguendo il ritmo che ti indica lo spirito.
Non la vuoi più smettere.
É la musica per cui gli inglesi probabilmente non avrebbero comprato gli africani per schiavizzarli, ma solo per sentirli cantare.
Però quella musica è nata con gli schiavi, è nata per sperare nel futuro, nella libertà e in tutto ciò che vale veramente qualcosa.
Bob era semplicemente un profeta e come tutti i profeti … volano via troppo presto … volano sulle ali della libertà.

martedì 27 maggio 2014

STORIE DI MITI: LENNON


Suonava.
Lui suonava e cantava. Una voce dolce, sottile e fine che ti accarezzava e volava via, diceva parole vere, parole che voleva avverare.
Rimasero solo utopie.
Cantava perché la gente ci credeva, tutti lo facevano con lui, con lui e il suo gruppo.
Non è che fosse l’uomo da seguire … forse era proprio crollato anche lui come tutti in quegli anni.
Ma il fatto che si chiamava John lo salvò.
I capelli e la barba lunghi, i piccoli occhiali tondi che lo caratterizzavano.
Il banjo che cominciò a suonare e la voce con cui  fece volare.
Andava oltre a quello che era lui. Oltre a tutto quello che le persone dicevano. Gli uomini non sono perfetti no … ma le canzoni ti possono far immaginare.
Le foto sono rimaste. Gli amori non se ne sono mai andati. John faceva capire che la vita … che dopo la vita … si poteva immaginare che non esistesse il paradiso.

mercoledì 21 maggio 2014

STORIE DI MITI: IL SIC

Non capita spesso di cambiare canale, di accendere la TV, magari anche solo per caso e … vedere così tanti capelli ricci uscire da un casco.
Beh, è capitato spesso, per anni. Tanti ricci che volavano al vento. In giro per il mondo. Scoprivi la faccia, guardavi bene, leggevi la carta d'identità e ti accorgevi che non erano solo ricci. Sotto c'era un ragazzo.
Uno dei ragazzi più semplici e leali della storia. Che quei suoi amatissimi ricci non se li sarebbe mai fatti tagliare. A nessun costo.
“Super Sic” questo era il nome che si sentiva più spesso. Quello che urlava il telecronista, quello che urlava Meda a ogni sua caduta, quello che urlavano in milioni ad ogni suo sorpasso.
Perchè se è vero che un pilota o un qualsiasi sportivo deve metterci la passione, Il Sic era il migliore di tutti. Perché forse quella grinta, quella passione furono ciò che lo fecero rimanere attaccato al gas fino alla fine.
Una storia poi una leggenda. Quella di un ragazzo romagnolo, spettinato e un po' folle. Perché l'importante era darci dentro.
L'avevano capito tutti che era speciale. L'avevamo capito tutti che era un gran pilota, capace di farti volare. Sognare.
A dodici chilometri dal 58 abita il 46.
Non sono numeri civici. Non sono targhe. Non è neanche il destino che fossero così vicini e poi così lontani. La storia del Sic è una storia d'amore. Una storia un po' particolare, una storia che è ricominciata con un segnale forte.
“Se vi è sembrato di conoscerlo a voi da casa, beh è proprio come vi sembrava. L'avete conosciuto”.
Di questa storia non posso raccontarvi la fine solo perché non c'è. Non posso raccontarvi la fine solo perché se Il Sic fosse qui, non vorrebbe che ve la raccontassi.