mercoledì 24 settembre 2014

POETA

Fu il mio ultimo viaggio in Africa e già ne avevo alle spalle una trentina circa.
Avevo ottant’otto anni e il medico mi aveva diagnosticato una malattia strana, la chiamava follia.
Non avrei più potuto viaggiare. Diceva che era matto ma quello che io vidi era tutto vero.
Tre uomini africani di una tribù amica, dove dormivo e alloggiavo, comandata dal mio vecchio pronipote. Un grande capo per tutti. Ecco. In quell’ultimo giorno in Africa, il diciottesimo dopo la mia partenza, tre uomini si misero a suonare un coccodrillo, un leone, una zebra.
Erano animali vivi, il loro torace risuonava, non gli facevano male. Creavano una musica bellissima e loro gli ringraziavano. Ho visto un coccodrillo fare le fusa e un leone leccare e scodinzolare. La zebra invece nitriva di gioia e più suonavano più il colore della loro faccia cambiava, diventava rosso, verde, blu. Si ingrandivano e rimpicciolivano e ogni tanto la loro testa si svitava dal collo, faceva delle smorfie e poi batteva a terra, cantava, suonava, scriveva.
Gli animali cominciarono a cantare pure loro e a fumare qualcosa ogni tanto.
Le grandi palme sulla mia testa felici di vederci ridacchiavano e la tribù, tutta la tribù e il villaggio, perfino le capanne. Tutto ballava freneticamente e velocemente. Le parole veloci scorrevano come i fiumi d’acqua che volavano. Le mie fantasie e le mie poesie sui fogli di carta andavano via con il vento. Dio mi guardava e io con gli occhi alti verso il cielo, con gli occhi che giravano a destra a sinistra e a terra, io pronunciavo parole d’amore.
I medici durante la mia visita non vollero credermi e mi rinchiusero in un ospizio. Non mi interessa niente. Me ne sto qui. Scrivo davanti alla finestra poesie. E sono sempre più sicuro di avere la mia ragione da folle vecchietto.  

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