mercoledì 17 settembre 2014

PSYCO

Martinder era segretario al New York Time. Un bel lavoro. Una bella famiglia, con due figli, maschio e femmina, dieci e dodici anni. Splendidi, bravi a scuola, curati, puliti ed educati. La moglie, di famiglia nobile e con un pacco di soldi da paura, non aveva bisogno di lavorare e così ogni sera, quando lui tornava a casa, c'era sulla tavola la cena pronta, la moglie truccata e pettinata, la tavola raffinata e figli con la bocca piena di buone notizie.
Ed era l'unica volta in cui parlavano con la bocca piena.
Johnnino, il figlio era capitano della squadra di baseball e Janine, la figlia era presidentessa del consiglio studentesco e grande giocatrice di scacchi e tiratrice a scherma.
Il fatto è che quella sera dell'otto maggio 1981 Martinder, sognava, o meglio, credeva di non sognare, sognando in realtà.
Forse quella sua vita, quel suo lavoro, tutto era falso. Gli venne solo il sospetto. Dopo che lui sarebbe morto, dopo che la gente si sarebbe dimenticata di lui, dopo cento anni, ciò che credeva di fare non sarebbe servito a niente, tutto, da cosa era nata la vita, Dio, il BigBang, la fede, la religione, il movimento, l'energia, il fuoco, la terra.
Ma poi si addormentò, aveva capito.
Aveva capito che ciò che contava, era quello che si faceva, era il presente, il futuro era già vecchio e il passato era troppo nuovo, troppo vicino, già fatto.
Che voleva però sapere com'era la vita nel resto dell'America, nel resto del mondo, al di fuori da lui. Voleva provare a vivere un po'. Anche a soffrire. A provare ciò che si provava fuori da quel posto chiamato casa. Da quel mondo immaginario in cui credeva di vivere, da quel mondo nella sua testa.