Martinder era segretario al New York
Time. Un bel lavoro. Una bella famiglia, con due figli, maschio e
femmina, dieci e dodici anni. Splendidi, bravi a scuola, curati,
puliti ed educati. La moglie, di famiglia nobile e con un pacco di
soldi da paura, non aveva bisogno di lavorare e così ogni sera,
quando lui tornava a casa, c'era sulla tavola la cena pronta, la
moglie truccata e pettinata, la tavola raffinata e figli con la bocca
piena di buone notizie.
Ed era l'unica volta in cui parlavano
con la bocca piena.
Johnnino, il figlio era capitano della
squadra di baseball e Janine, la figlia era presidentessa del
consiglio studentesco e grande giocatrice di scacchi e tiratrice a
scherma.
Il fatto è che quella sera dell'otto
maggio 1981 Martinder, sognava, o meglio, credeva di non sognare,
sognando in realtà.
Forse quella sua vita, quel suo lavoro,
tutto era falso. Gli venne solo il sospetto. Dopo che lui sarebbe
morto, dopo che la gente si sarebbe dimenticata di lui, dopo cento
anni, ciò che credeva di fare non sarebbe servito a niente, tutto, da
cosa era nata la vita, Dio, il BigBang, la fede, la religione, il
movimento, l'energia, il fuoco, la terra.
Ma poi si addormentò, aveva capito.
Aveva capito che ciò che contava, era
quello che si faceva, era il presente, il futuro era già vecchio e
il passato era troppo nuovo, troppo vicino, già fatto.
Che voleva però sapere com'era la vita
nel resto dell'America, nel resto del mondo, al di fuori da lui.
Voleva provare a vivere un po'. Anche a soffrire. A provare ciò che
si provava fuori da quel posto chiamato casa. Da quel mondo
immaginario in cui credeva di vivere, da quel mondo nella sua testa.