giovedì 2 ottobre 2014

GIROLAMO STAIN E I SUOI SENSI

Girolamo Stain era un italo americano dalle dolci e cortesi maniere, un bravo ragazzo, sempre perso nel suo mondo dove le fate ascoltavano voci di eroi nascosti nelle notti di estate e pregavano che i mostri non tornassero dalle tenebrose caverne.
Aveva circa diciotto anni e quella mattina stava camminando per la strada osservando pioggia che cadeva e una nuvola che intanto si stava arrendendo alla grande forza di re Sole.
Dai negozi uscivano profumi di scarpe, di cappotti, di pane, di zucchero. Profumi di profumi dalle profumerie e profumi di ragazze bellissime venivano trasportati sui terrazzi delle signore, che in tre sedevano a giocare a carte su una vecchia sedia di bambù e ricordavano i tempi passati, quando il marito era in vita e il figlio non era partito per la guerra da quindici anni.
Il rosso dei rossetti si mischiava a quello delle rose e creava un odore dipendente, che tu lo seguivi anche se non c’era.
Girolamo notò a terra dei pezzi di vetro e di vecchi vinili, di torte bruciate e di carezze di bambini. Nelle sue orecchie rimbalzavano i suoni delle bombe, che arrivavano dalla lontana guerra e nei suoi occhi splendevano cascate d’acqua immerse nella natura.
Le mani erano nere. I piedi senza scarpe e il volto con un espressione indefinita. Girolamo Stain si era appena accorto di tutta la gente che camminava di fianco a lui e a cui non aveva fatto caso. Chissà quanti di loro domani saranno cadaveri, chissà quanti di loro sono criminali, chissà quanti di loro sono innamorati, chissà quanti padri e quante madri per bene.
Allora una grande foglia gli accarezzò la sua bocca e un lungo tempo di silenzio passò per la sua mente.
Provò a parlare ma si ricordò dopo che non poteva. La bocca si apriva e si chiudeva.
Non importava, non poteva importare quello che lui fosse o non fosse capace di fare, l’importante era quello che lui credeva di poter fare. Qualcuno aveva fatto in modo che lui non potesse parlare attraverso un incantesimo, pensava Girolamo. Se avesse potuto parlare sarebbe diventato troppo importante e cattivo, o troppo importante e giusto. Lo prendeva come un segno del destino. Aveva capito, durante la sua vita, e finalmente quel giorno, che ciò che importava davvero era la poesia dei bei giorni passati. La tristezza non esisteva in lui che non poteva parlare con gli uomini. Ma esisteva nella sua mente, che sentiva i terribili rumori provocati dalla loro arroganza. Allora, tornava nel suo mondo di fate dove tutto era perfetto.