Non poteva di sicuro
capitare tutti giorni una cosa simile. Un fenomeno di quelle
dimensioni e di quella spettacolarità è davvero incredibile.
Era una fredda
serata di ottobre del 1920.
Tra una guerra che
va e una guerra che viene il tempo andrà pure occupato in qualche
modo.
Jack, un soldato
della marina passeggiava per un vicolo di Londra.
La luce dei lampioni
gli riscaldava l'anima e il grande cappotto di lana che gli arrivava
alle ginocchia, la pelle.
Gli occhiali tondi
che aveva sul viso erano completamente appannati e il suo taglio di
capelli era fin troppo sobrio per essere un soldato. Di solito i
ragazzi della sua età, arruolati erano fantasiosi nel modo di
acconciarsi la testa.
Teneva stretto sotto
un braccio un fascicolo ed era diretto verso il grande portone di
legno che ogni secondo era più vicino a lui. Quello del teatro.
Era un grande
teatro. Davvero enorme dentro e Jack era in ritardo per l'inizio
dello spettacolo.
Poltrona numero
diciotto. Fila sedici. Le luci si spengono nell'attimo in cui si
siede.
Le luci non si
riaccenderanno mai più per lui. Uno spettacolo di Shakespeare
rimbombava nella sala. Attori meravigliosi e trama davvero profonda.
Atmosfera magica quella sera. Fuori intanto, la neve cominciava a
coprire cancelli, giardini, strade, tetti e la testa di qualche
innamorato e di qualche ladro, che a due a due camminavano per la
strada diretti a dormire nel loro caldo letto di fronte magari ad un
bel camino che in quella sera, per Jack non bruciò più. Aveva
ventidue anni. Amava il teatro, la musica, la letteratura e le feste.
Si era ammalato in
guerra di una malattia incurabile.
Era arrivato il suo
momento. Ci aveva pensato a come volare via. Shakespeare era stata la
sua risposta.
Sulla battuta
finale, l'ultimo battito di ciglia e un sorriso immenso stampato sul
volto. Le guance erano coperte dalle fossette. Gli occhi, chiusi,
anch'essi divertiti. Era davvero felice quel ragazzo nella poltrona
diciotto. Poltrona di velluto rosso con una piccola targhetta in
metallo. Le sue mani stringevano una lettera. La lesse alla fine
della faccenda il commissario che era stato subito avvertito dopo che
si era stabilito il decesso; dalla bocca del grande uomo calvo:
“Vi ho fregati
tutti!! Sto sorridendo amici miei. Sono morto in questo momento.
Voglio scommettere con chiunque che nessun altro sarà capace di
morire e di divertirsi. Io ho vissuto amici miei. Si vive di più
prendendosi una pallottola nella gamba di quanto scommetto, non
abbiano fatto alcuni di voi in ottant'anni di timida vita.
Ci vediamo belli.
Ciao amici miei”.
Io ero quella sera
in sala. Avevo otto anni. Non ci credeva nessuno a quello che aveva
scritto e che era successo. Non potevano crederci. Era impossibile
per loro che guardavano Shakespeare senza capirci in realtà niente.
Che andavano in chiesa perché lo diceva il giornale e che credevano
nella guerra. Ma per il ragazzo lì, che odiava la guerra perché
l'aveva combattuta, che amava Shakespeare perché non aveva studiato
le forme o le rime o la ritmica. Ma che aveva studiato come
apprezzarlo e che andava in chiesa perché era lì come tutti e
credeva davvero. Lui era l'unico in quella sala che aveva capito
qualcosa dello spettacolo più bello di tutti. La vita.