martedì 14 ottobre 2014

Quella sera a teatro.

Non poteva di sicuro capitare tutti giorni una cosa simile. Un fenomeno di quelle dimensioni e di quella spettacolarità è davvero incredibile.
Era una fredda serata di ottobre del 1920.
Tra una guerra che va e una guerra che viene il tempo andrà pure occupato in qualche modo.
Jack, un soldato della marina passeggiava per un vicolo di Londra.
La luce dei lampioni gli riscaldava l'anima e il grande cappotto di lana che gli arrivava alle ginocchia, la pelle.
Gli occhiali tondi che aveva sul viso erano completamente appannati e il suo taglio di capelli era fin troppo sobrio per essere un soldato. Di solito i ragazzi della sua età, arruolati erano fantasiosi nel modo di acconciarsi la testa.
Teneva stretto sotto un braccio un fascicolo ed era diretto verso il grande portone di legno che ogni secondo era più vicino a lui. Quello del teatro.
Era un grande teatro. Davvero enorme dentro e Jack era in ritardo per l'inizio dello spettacolo.
Poltrona numero diciotto. Fila sedici. Le luci si spengono nell'attimo in cui si siede.
Le luci non si riaccenderanno mai più per lui. Uno spettacolo di Shakespeare rimbombava nella sala. Attori meravigliosi e trama davvero profonda. Atmosfera magica quella sera. Fuori intanto, la neve cominciava a coprire cancelli, giardini, strade, tetti e la testa di qualche innamorato e di qualche ladro, che a due a due camminavano per la strada diretti a dormire nel loro caldo letto di fronte magari ad un bel camino che in quella sera, per Jack non bruciò più. Aveva ventidue anni. Amava il teatro, la musica, la letteratura e le feste.
Si era ammalato in guerra di una malattia incurabile.
Era arrivato il suo momento. Ci aveva pensato a come volare via. Shakespeare era stata la sua risposta.
Sulla battuta finale, l'ultimo battito di ciglia e un sorriso immenso stampato sul volto. Le guance erano coperte dalle fossette. Gli occhi, chiusi, anch'essi divertiti. Era davvero felice quel ragazzo nella poltrona diciotto. Poltrona di velluto rosso con una piccola targhetta in metallo. Le sue mani stringevano una lettera. La lesse alla fine della faccenda il commissario che era stato subito avvertito dopo che si era stabilito il decesso; dalla bocca del grande uomo calvo:
“Vi ho fregati tutti!! Sto sorridendo amici miei. Sono morto in questo momento. Voglio scommettere con chiunque che nessun altro sarà capace di morire e di divertirsi. Io ho vissuto amici miei. Si vive di più prendendosi una pallottola nella gamba di quanto scommetto, non abbiano fatto alcuni di voi in ottant'anni di timida vita.
Ci vediamo belli. Ciao amici miei”.
Io ero quella sera in sala. Avevo otto anni. Non ci credeva nessuno a quello che aveva scritto e che era successo. Non potevano crederci. Era impossibile per loro che guardavano Shakespeare senza capirci in realtà niente. Che andavano in chiesa perché lo diceva il giornale e che credevano nella guerra. Ma per il ragazzo lì, che odiava la guerra perché l'aveva combattuta, che amava Shakespeare perché non aveva studiato le forme o le rime o la ritmica. Ma che aveva studiato come apprezzarlo e che andava in chiesa perché era lì come tutti e credeva davvero. Lui era l'unico in quella sala che aveva capito qualcosa dello spettacolo più bello di tutti. La vita.