mercoledì 14 ottobre 2015

ACQUA FRIZZANTE

Sopra la grande tavola della cucina si trovava appoggiata, ferma, immobile, una grande bottiglia di acqua frizzante.
O se preferite di acqua con le bollicine, di acqua pizzichina, insomma, di acqua gasata.
Essa era di vetro trasparente con un tappo bianco.
All'interno acqua.
Solo acqua.
Albertino entrò nella stanza dopo una giornata di lavoro in fabbrica e stremato la prese per bere.
Quando la bottiglia fu ad un centimetro dalle labbra Albertino si immobilizzò e aggrottò le sopracciglia.
Fece una strana cosa con la bocca, poi un ghigno e la appoggiò di nuovo sul tavolo; nell'esatta posizione di prima, dove era rimasto un piccolo cerchio di acqua.
Cercò una cannuccia in fretta e poi con la bottiglia si gettò fuori di casa.
Prese un respiro molto profondo. Si svuotò le tasche e i piccoli centesimi caddero risuonando.
Le persone a quell'ora stavano cenando e lui stava invece per volare.
Fece una verticale e con la bocca infilò la cannuccia nella bottiglia.
Bevve tutto e pian piano, come aveva progettato, incominciò ad alzarsi verso il cielo.
Sempre più su, in mezzo ai tetti, salutando all'impazzata e urlando di paura.
Di paura.
Finite le domeniche anomale in città, finiti i pranzi con i capi di lavoro.
Finito il lavoro in fabbrica.
Stava andando velocemente verso l'universo.
Era questo il suo pensiero mentre sfiorava ancora i lampioni.
La maglia gli cadeva sulla testa, lui era ancora a testa in giù.
L'universo si avvicinava ancora.
Niente più rumori di macchine ormai.
Addio ai suoi vicini che si sparavano alle tre di notte e poi facevano la pace.
La cannuccia rossa pendeva dalle labbra.
Pendeva dalle labbra.
Albertino sedeva nell'apparente vuoto pieno di bolle nella pancia, con gli occhi in alto a vedere quando sarebbe entrato in orbita.
Se ne accorse quando fu leggero come un corpo senza attrazione gravitazionale.
Quando non aveva più nemmeno i pantaloni e fluttuava senza respiro verso l'inizio dell'infinito. Verso l'inizio di un altro tutto.

lunedì 5 ottobre 2015

SQUALLORE NERO

Ogni sera sul pianerottolo al terzo piano, del numero 35 c'era puzza di fumo e profumo di ragù.
Le piante vecchie bevevano una volta ogni cinque giorni e sgocciolavano in un sottovaso rotto.
Le pareti avevano perso un pochino di intonaco e la luce lampeggiava, a tratti andava, a tratti ti lasciava completamente nel buio.
Dietro alla porta di legno senza graffi, quella sulla destra quando salivi dalle scale, viveva un uomo sulla trentina con la barba folta e i capelli curatissimi. Aveva due o tre denti storti e ingialliti ma non erano quelli a renderlo così brutto.
A renderlo brutto erano le sue azioni e i suoi pensieri, che lo rendevano talvolta sempre più strano.
A momenti si odiava e sapeva di aver fatto qualcosa terribile e a momenti era come se fosse stato vittima di qualche cosa.
Si sarebbe sempre ricordato di una sera ...
La casa era in disordine e lui stava a badare una vecchia signora, si diceva potesse essere la nonna.
In realtà l'aveva badata fino alle ventitré e dodici di quella sera.
Ed era di questo che si sentiva in colpa.
Aveva bevuto fino allo sfacelo e tornato in casa aveva colpito la povera signora con una bottiglia di vetro vuota, sulla testa. Uccidendola.
Si era piantato in vena un altra siringa e aveva cominciato a sbavare sul tappeto.
Tre ragazze e un suo amico erano ribaltati in bagno, uno in coma e due nella vasca annegate.
La terza delle ragazze era con un bisturi nella pancia e il sangue sulle piastrelle decorate.
Ma non era morta.  Era ancora viva e rideva.
Mischiava il sangue alla birra.
Ormai erano passati due anni da quella sera maledetta.
L'uomo era ancora sveglio la notte ma di giorno non provava rimorsi per nulla.
Del resto è proprio la luce che nasconde gli incubi.
Nel pianerottolo al terzo piano del palazzo numero 35, la lampadina si spegneva lasciandoti al buio.

martedì 29 settembre 2015

UN TORACE, UNA CAVIGLIA E DUE OCCHI BRUTTI

In una sera di autunno freddo, in cui non pioveva, un ragazzo viaggiava veloce sulla bicicletta nera di suo nonno.
Non si spiega ancora come sia successo o chi sia stato, ma un bastone si infilò tra le ruote, il ragazzo perse il controllo della bicicletta e finì di botto a terra, steso in mezzo alla piazza con un lancinante dolore al petto. Le pietre erano fredde e dure, mentre si coloravano di rosso proveniente dal braccio del ragazzo.
Lui provò ad alzarsi ancora con la mano sul petto, ma il dolore era troppo forte anche alla caviglia. Guardò la bicicletta slittata lontana. In girò non c'era nessuno, le persone in giorni come quelli preferivano stare in casa.
«Hai bisogno?»
Una voce femminile alle sue spalle.
«Oh, allora qualcuno c'è! Si ho bisogno, mi sa che mi sono rotto la caviglia e ...»
«Non c'è problema, ti porto dove vuoi»
«Dove vuoi? Beh allora direi proprio da un medico o al pronto soccorso»
Poi, come se fino a quel momento non lo avesse fatto, il ragazzo si fermò a guardare il viso di quella soccorritrice e ne vide qualcosa di bellissimo. In realtà no, forse non vide la bellezza nel viso, ma fece una smorfia di dolore felice e venne aiutato dalla ragazza a salire su una vecchia macchina nera, di cui fino a quel momento non aveva notato l'esistenza, che sarebbe potuta essere di suo nonno.
Intanto le nuvole erano più fitte.
«Hai molto male?»
«Abbastanza»
«Come hai fatto?»
Il giovane non rispose.
«Mi chiamo Piero»
«Io Anna... come hai fatto a cadere dicevi?»
Piero la guardò bene, un po' meglio, unì le labbra come se dovesse baciare, ma in realtà lo fece per vedersi i baffi e con una mano sentì la barba sulle guance.
«Un bastone tra le ruote»
«E come hai fatto? Non ci sono molti bastoni in piazza»
«No, ma ogni tanto ci sono i bastoni della fortuna»
«Cioè»
Rise e il ragazzo la guardò.
«Cioè quei bastoni che ti si infilano tra le ruote per dirti che sarai fortunato e ti farai raccogliere da una bellissima ragazza»
E lei sorrise di nuovo.
«Bellissima è banale»
«E cosa dovrei dirti?»
«Che ho due occhi stupendi ma sarebbe banale anche quello...»
«Oltre che banale falso»
Lei diventa seria.
«Nel senso che di occhi come i tuoi ne è pieno il mondo. Marroni, con delle ciglia
nere e senza nessuna particolarità.
E nemmeno le tue labbra mi piacciono, non mi piacciono nemmeno i tuoi capelli.
Però mi piacciono le tue orecchie sporgenti e quel naso un po' strano.
Ma poi le gambe la pancia e la faccia non mi piacciono per niente.
A me non piacciono queste cose di te.
A me piaci te»
Silenzio.
«Sembra che io e te ci conosciamo da tanto»
Risatina.
«Ma nessuno che conosco da tanto mi ha mai fatto un discorso tanto demenziale e bellissimo, anche se bellissimo è banale»
«Sai cosa è banale? Andare all'ospedale con una caviglia rotta e il torace dolorante.
Portami dove vuoi tu»
«Al parco»
«A fare?»
«A continuare a dirmi che ho dei brutti occhi»
Sorriso. Un po' banale, ma di solito le cose belle sono belle storie da raccontare e il sorriso di Anna su quel sedile era un bel finale per una bella caduta.

sabato 5 settembre 2015

LA STORIA DI ORLANDO FELICE


Era il 1955. Felice e Orlando, ogni giorno a ogni ora, potevi beccarli a fare qualcosa di illegale in qualsiasi angolo della città.
Non erano i tipi da spaccare tutto, nemmeno assassini.
Loro truffavano la gente, anche abbastanza male.
Felice incantava tutti con un trucchetto di magia e Orlando passava e fregava i portafogli di tutti quelli che stavano a guardare.
Poi, visto che la città ha un numero limitato di persone da truffare, esse smisero di cascarci e allora, entrambi cominciarono a mascherarsi e ad entrare nelle case della gente ricca a rubare.
Non rovinavano le famiglie o distruggevano sogni alle persone. Rubavano qualcosa per riuscire a mangiare e a far sopravvivere qualcuno nella comunità di persone povere, zingari o banditi come loro, in cui vivevano.
E le cose in fondo, per i derubati, continuavano ad andare dritte, senza problemi.
Qualcuno cominciò a lasciare addirittura aperta la porta e biglietti d'avviso del tipo:
Prendete pure la frutta e la carne, non il tacchino però, quello mi serve per il pranzo
e magari ci scappava anche qualche banconota.
Erano stati un po' adottati dalla città e spesso giravano per la strada, salutavano le persone magari e loro ricambiavano con un sorriso o una piccola risatina.
Questo loro strano modo di fare i ladri però non andava bene allo sceriffo Jeffy, che dava la caccia ai due ragazzi da ben otto anni, ma niente, non era mai riuscito a beccarli.
Felice e Orlando però vennero traditi dal loro amore. La passione di sempre.
Le corse in macchina.
Era l'unica volta in cui giravano con così tanta polizia in giro.
Jeffy lo sapeva.
Così in una domenica di Settembre, tra il rombo dei motori e le grandi nuvole che incombevano sulla pista, ecco un fucile carico, stretto tra due mani ferme, che si libera del proiettile e due corpi morti tra la folla.
Felice e Orlando.
Uno sopra l'altro.
Morti. Il sangue grondava dalla loro testa.
La prima a vederli deceduti, fu la cugina di Felice, nonché moglie di Orlando.
Una donna con la faccia tosta e anche un po' doppia.
Erano morti in una posizione buffa. Sembrava un solo corpo con quattro braccia e quattro gambe e questo fece più che sorridere la vedova.
Il giorno in cui dovevano scrivere il nome sulla lapide però, sorse un pesante dubbio al quale nessuno seppe dare risposta.
Il nome di Felice?”
“Il cognome di Orlando?”
Nulla. Nemmeno all'anagrafe si trovò risposta.
Così saltò fuori la moglie, poco commossa e più divertita.
Seppelliamoli insieme, come sono morti. Come un uomo solo. Orlando Felice.
Perché Felice era Orlando e Orlando era felice con Felice”
Così avvenne. Vennero sepolti uno sopra l'altro. Orlando Felice era cascato nella grande trappola delle passioni.
Anche se, la moglie è certa che siano entrambi molto divertiti di come sia finita la loro storia.

martedì 25 agosto 2015

LA RAGAZZA DEI CAMPI

Con dei capelli mori non molto lunghi e due fossette molto profonde, Retié, ragazza di sedici anni, sembrava una bambola perfetta.
Lei non si sa da dove venisse, veniva dai campi, si sa solo questo.
Viveva nei campi di grano che si trovavano al margine di un grande castello abbandonato.
Ogni tanto si faceva viva in paese, ma solo per poco, perché poi era cercata dalla polizia per essere portata all'orfanotrofio e quindi, tornava di corsa nei suoi campi di grano, dov'era impossibile trovarla.
Aveva due labbra rosse sottili di sopra e grosse di sotto, le guance colorite di rosa e gli occhi allungati con le ciglia lunghe.
Ogni volta che i corvi volavano bassi, voleva dire che si stava lavando la pelle bianca e quando invece volavano alti, quasi a toccare le nuvole, voleva dire che stava cantando.
E quando i corvi se ne andavano, voleva dire che io la stavo cercando.
La conobbi per caso un giorno di estate fredda, mentre viaggiavo con la mia bicicletta per una stradina sterrata proprio tra quei campi.
La trovai a fare delle capriole e mi avvicinai e lei si fermò a fissarmi.
Poi mi tocco il naso, come se fossi un qualcosa di strano.
E io le mossi i capelli.
Mi prese per mano e mi fece fare una corsa lunga a creare un percorso tra le spighe.
Aveva gli occhi verdi e passammo insieme tutta la notte a guardare le stelle che cadevano forti proprio vicino a noi.
Schioccò le dita e in cielo rimase solo la luna e allora mi prese e mi fece volare con lei.
E cantava, aveva una voce roca, una voce soul, sottile, vivace.
Mi scordai del viaggio che stavo intraprendendo e della bicicletta che era rimasta sullo stradino.
Poi mi ritoccò il naso e con un altro schiocco di dita, fece tornare le stelle e scomparì lei.
Non la rividi più, non seppi mai più nulla. La cercai nei campi ancora finché non mi arresi e ripartii per lo stradino che avevo perso.
Ma fu proprio perché non la rividi più che la rese così affascinante. Il bel ricordo di lei è un volto con la pelle chiara, quasi invisibile la sera, e una voce sottile e graffiata, di una ragazza che cercava il suo vento per separarsi dalla spiga e essere trasportata lontana nei campi.

sabato 1 agosto 2015

STRANEZZE VACANZIERE

Sono seduto in un tavolo al vento, sotto una veranda che da sul mare.
I pini marittimi sono pieni di cicale che cantano da quando il sole è sorto e poi si è fatto coprire dalle nuvole.
Il vento tira forte e gli oleandri sono belli da guardare, con dei grandi fiori bianchi e rosa e quel pericolo sulle foglie.
Il vento fa muovere forti le onde che sbattono contro la sabbia e sono la base sulla quale cantano le cicale.
Per la sera è uscito il sole, come a dire che c’è sempre stato, come a dire che domani poi, dobbiamo starcene tranquilli che torna.
I teli bagnati di una giornata al mare si asciugano sullo stendino e mia madre ha i capelli neri bagnati dalla doccia.
Mio padre fischia sul letto e il mio amico ascolta musica.
Io scrivo. Nel vento mi piace un sacco scrivere. Dà un aria malinconica alle parole.
Ho riconosciuto, voce del verbo “Conoscere meglio” persone bellissime: una che parla con una strana “C” e tre che parlano con un accento straniero.
Il sole fa si che le nuvole diventino rosa.
Siamo pronti per uscire a mangiare ed io era tanto che non scrivevo. Mi mancava il naturale gesto di inventarmi qualcosa, così ho  narrato quello che succede.
Narrato, perché le vite di ognuno sono una favola e anche se questa non lo è, se una cosa lo è dentro ma non lo è fuori, se è una storia, composta da gente che ha una favola di vita, loro diventano persone favolose e questa diventa una favola.
È la cosa dentro la cosa, qualcosa che diventa la cosa che ha dentro, se quest’ultima è meravigliosa.
Una specie di legge del bello. Brutto per bello, bello.
Una favola è la massima forma di splendore e quindi …
Io ho fame.

mercoledì 15 luglio 2015

IL CALABRONE

In una calda giornata, in cui il sole accendeva i barbecue e fondeva le teste, in un grande prato un calabrone volava a trenta centimetri da terra, in direzione del sole.
Volava aiutato da una fresca brezza proveniente dal mare, una brezza capace di muovere le cime degli alberi alti e affusolati, che padroneggiavano sulla distesa di erba alta e tulipani.
Il calabrone ronzava forte, senza infastidire nessuno. Era solo nell'aria di quel prato e poteva sbattere le ali più velocemente di come pensava.
Nuotava a suo modo, felice nell'aria e il cielo con qualche nuvola lontana, portata dal vento, si oscurava man mano.
Dove c'era l'azzurro ci perdevi i sensi e la testa cominciava a girare.
Dove c'era il grigio, sentivi l'odore della terra bagnata.
Il calabrone era viola, nero, blu, con il sole si notavano riflessi e colori nuovi agli occhi.
Intanto l'odore così dolce e forte della terra bagnata, si alzava nell'aria e il calabrone lo sentì.
Certe cose i calabroni le sentono.
Se ascoltavi bene, le formiche cominciavano a correre nei loro formicai mentre il sole veniva coperto ma non perché aveva freddo.
Le api scappavano veloci dalla pioggia e le farfalle finivano le ultime danze tra i fiori.
Gli scoiattoli si sentivano parlare sopra gli alberi e gli uccelli piano piano volare più bassi e smettere di cantare.
Le gocce ruppero l'azzurro e caddero forti a bagnare l'erba e le ali del calabrone, che rimase a terra per pochi istanti.
La pioggia insistette e il sole spuntava appena da un angolino.
Il calabrone zuppo smise di volare.
Ma il sole era ancora lontano, lo doveva raggiungere, non poteva fermarsi.
Così guardò la pioggia e gli chiese di smettere.
Lei accettò dopo un po' di contrattazione e il calabrone riprese il suo viaggio fino al sole, tra gli squittii, i nuovi ronzar e il cinguettare di piccoli passerotti.
Certi becchi non si danno per caso. Si danno perché ti hanno impedito di andare dove volevi.
Tipo sul sole.

martedì 7 luglio 2015

IL DITO SINISTRO


Nella mia breve vita fin'ora, ho sempre sostenuto, io, Folco Tinini, che da un dito della mano sinistra, un mignolo, si possono capire cose enormi sulla vita delle persone.
E quindi, che nelle cose più piccole si nascondono le verità più grandi.
Da un mignolo sinistro si può capire se qualcuno va in moto, se suona la chitarra, se impugna male una penna, se se lo mette nel naso, se lo alza quando beve, se si mangia le unghie, se si è rotto.
Quindi si scoprono cose che magari non avremmo mai scoperto.
L'altro giorno ho incontrato una signora per bene, di quelle con il mignolo forte, perché lo alzano quando bevono. E avevo anche notato che era mangiato, o meglio l'unghia era mangiata.
Così mi avvicinai per parlare con lei e venne fuori che era un alcolizzata, che era stressata dal lavoro e non ne poteva più di alzare il mignolo quando beveva in spocchiosi e pacchiani aperitivi, il solito vino bianco ghiacciato che faceva venire coliti continue alla donna ben pettinata.
Così adesso la signora, dopo un mio consiglio, ha mollato tutto e tutti e vive in una roulotte su di un lago bianco in cui le zanzare ti sbattono addosso come frecce sul viso e l'acqua fredda ci mette anni prima di bollire.
Eppure lei sta bene vestita in tuta e con i capelli con dei nodi giganti.
Certo, i miei consigli non sempre portano a buone soluzioni. Dal marito della signora ho preso tante botte che al sol ricordo piango ancora, ma se posso aiuto le persone con il mio piccolo super potere.
Un dito fa la differenza. Già. La fa davvero. Quanti consigli sulla chitarra che ho dato.
Ne diedi anche al piccolo Jimmy che impugnava male e non era nemmeno molto capace.
Poi io non osservo solo le dita. Osservo anche le ciglia e i peli. Osservo i nei e le rughe.
Ed è incredibile come cose che possono esserci sembrate del tutto inutili o banali, si rivelino la soluzione ad ogni problema e ci dicano la verità meglio di come potessimo raccontarla a noi, noi stessi.

martedì 30 giugno 2015

IL POSTO A TAVOLA

I posti a tavola, ho sempre pensato che siano molto importanti.
In un posto a tavola, ci si può capire un sacco di cose, per esempio il peso di una persona, dall'impronta che lascia sulla sedia; oppure quanto sia maleducata o distratta, dalle briciole per terra.
Il tovagliolo anche, insegna un sacco di cose su chi siede a tavola, ma ciò che caratterizza chi occupa un posto, sono le sue abitudini.
Conobbi, molto tempo fa, il più grande e vi giuro il più grande, a sedersi su una sedia per mangiare.
Arrivava presto, puntuale e si sedeva.
Il tovagliolo di fianco al piatto era sempre lo stesso, pulito e stirato.
La prima cosa che faceva era mangiare del parmigiano. Lo ha sempre fatto. E credo che non abbia ancora smesso di farlo.
Questo portava anche al fatto che non assaggiava mai niente per stabilire se la quantità di sale fosse giusto oppure no, siccome il sapore forte del formaggio copriva ogni altra cosa.
Era un uomo ben vestito, ricco, molto ricco, ma senza bisogno di mostrarlo.
Inoltre, aveva un altra abitudine, o meglio, la principale caratteristica del suo modo di stare a tavola, quella che non mangiava mai niente oltre a il primo e se c'era un dolce.
E guai se venivano proposti avanzi sulla tavola.
Credo che questo amante del posto a tavola, fosse anche un appassionato di storie medievali e animali feroci, perché salutava sempre con: “Ciao principessa, ciao Leone”.
E dopo aver salutato e aver messo in moto la macchina, che rombava forte nel cortile, andava a dormire e tornava la sera.
Il posto veniva attrezzato per la cena e si sedeva lì, allo stesso orario, e se andava via, con lo stesso rumore del motore e salutando alla stessa maniera.
Al ristorante era la stessa cosa. Stesso ristorante, stesso risotto di pesce e abiti eleganti.
Un saluto e un: “A domani”.
Si può pensare che fosse una persona noiosa con questi modi di fare spesso uguali, ma è dalle abitudini che si capiscono le qualità delle persone.
E sono le abitudini che scandiscono il tempo.
E sono le persone che lo decorano e lui, con le abitudini lo ha decorato bene.
Dove sia finito il grande intenditore di posti a tavola oggi, nessuno lo sa di preciso.
Eppure tutti se lo ricordano benissimo.

martedì 23 giugno 2015

IL ROCK E LA BIRRA NON HANNO MAI ROVINATO IL MONDO

Potryk Stomp.
20 anni.
Capelli mori, ricci, che esplodono sulla testa a mezzo metro di altezza.
Analfabeta.
Fumatore.
Distrutto.
Non si sa dove sia nato.
Tatuato anche nelle vene.
Canta Rock e suona la chitarra elettrica.
Ha due cani.
Non usa droghe.
Si è fatto lasciare da otto ragazze che lo trovavano troppo romantico.
Brucia qualsiasi cosa cucini.
Partecipe di quindici risse in manifestazioni per l’anti-violenza.
Vive in una baracca.
La gente per la strada gli gira a trenta metri.
Ha sempre con se un coltellino.
Beve birra.

David Ruck
Quarantadue anni.
Laureato.
Esami perfetti.
Padre di famiglia.
Americano.
Lavato e profumato.
Ascolta l’opera.
Suona il violino.
Usa il potere.
Ha due figli.
Ha una moglie bellissima.
Cucchiaio d’oro otto volte ad un concorso di cucina nazionale.
Partecipe di importanti decisioni riguardanti i paesi  poveri.
Vive in una villa.
La gente lo ama.
Ha sempre una penna.
Beve un po’ di acqua tonica.

David Ruck ha firmato contratti e comprato azioni che prevedavano lo sfruttamento delle popolazioni asiatiche e africane per ottenere grandi terre e pozzi petroliferi.
Ha causato l’abbattimento di sedici chilometri quadrati di foresta e corrotto otto politici.
Con i soldi guadagnati ha regalato una macchina e un anello con diamante a sua moglie, una casa al figlio maggiore e una barca a vela a quello minore.
David Ruck indossa sempre la giacca e la camicia.

Potryk Stomp invece, ha suonato tutte le sere in un locale e poi ha spazzato, si è preso insulti e alla fine ha guadagnato i soldi per una nuova chitarra.
Potryk Stomp non è un teppista, non è un cattivo ragazzo.
Potryk Stomp ama se stesso. Non fa male agli altri.
Potryk stomp non indossa mai giacca e camicia, non perché fa la vita che fa, ma perché sa che finirebbe anche lui per rovinare il mondo.

martedì 16 giugno 2015

PAGINE BIANCHE E PAROLE COLATE


Tra tutto quello che può succedere, non c’è nulla di peggio che trovarsi fronte con una pagina bianca e una tastiera sulla quale non si sa più cosa scrivere.
È difficile, voglio dire, come si fa a scrivere se per la testa si ha tutto e niente.
Di solito quando si scrive si scrive di vita, usando storie e prendendola alla larga, ma si parla di vita. Si parla di un sacco di cose; questa mancanza di idee vorrà dire che … non vivo più?
Panico che si prende ogni parte del mio corpo al sol pensiero di non riuscire più a scrivere.
Oddio, la pagina bianca mi osserva, ha gli occhi rossi, ha l’aria di voler essere riempita. Sembra quasi che ti guardi e che ti minacci: Se non mi riempi ti faccio venire un ansia di non saper più scrivere che poi te ne vai in un isola greca e non torni più qua.
La pagina bianca, come la odio, non riesce a trasmettere nulla, se ne sta lì facendo finta di sapere tutto senza aver voglia di dirtelo.
Eppure sai cosa devi dire, sai che devi essere capace di dire la tua verità.
Così la prendi con serenità, apri la finestra e le dita cominciano a scorrere fluide sulla tastiera e a creare parole e piccole emozioni sullo schermo luminoso che ti sta di fronte.
Le pagine bianche sono fatte per essere riempite, il tempo è fatto per essere trascorso e i ricordi per essere impressi sulla carta.
Allora, eccoci di nuovo di fronte io e la pagina bianca, lei che mi guarda e io che la guardo. Ho lo sguardo più cattivo, si arrende e fa le fusa.
La pagina si fa accarezzare dalle lettere e dal flusso dei pensieri che scorrono su essa, dalle idee importanti e dalle cazzate che non servono se non a se stessi, per non scappare su un isola greca.
Come questa … pagina bianca, ti ho riempita. Voglio vederti colma di frasi stupende e rigata di nero. Come avessi pianto il mascara in orizzontale.
Belle le pagine bianche quando sono ferite dentro, quando le guardi e hanno tutto il trucco che cola … Un trucco che parla e che un sacco di donne e uomini che sanno far piangere bene le pagine, riescono a renderlo meraviglioso dentro la nostra testa.
I grandi scrittori e i grandi giornalisti che muoiono per il loro lavoro fanno piangere la gente su pagine bianche che non hanno parole per dire niente; i grandi scrittori e i grandi giornalisti  che sopravvivono nel loro lavoro e lo rendono meraviglioso e ci facilitano la vita, fanno piangere bianco su pagine scritte.
Questa è la capacità di una parole e di una pagina bianca.
Di rendere giuste anche le lacrime.

lunedì 8 giugno 2015

LUCCIOLE ESTIVE


Le lucciole illuminano le notti, le cose, le persone.
Le piante che crescono intorno a loro e i piccoli fili d'erba che sono già cresciuti.
Si sente in piazza l'odore dell'estate, si sente nei parchi, nel sudore, nelle scuole che si riempiono per gli esami e negli sguardi che sono un po' più leggeri di prima.
Le vedi le persone che parlano ma non hanno niente da dire.
I pantaloni corti e gli sbuccioni di una caduta in bicicletta per inaugurare l'aria calda e salutare quella fredda.
I palloni che rotolano e quelli che rimbalzano ma non sai dove vanno, gli occhiali da sole, la maglia dei mondiali e la coca-cola ghiacciata ottima per i mal di pancia .
T'immagini la sabbia rovente e le onde fresche che sembrano trasportarti lontano, oltre le boe, oltre il limite umano.
La ragazza bionda in costume che è tutta da vedere e il figo della spiaggia che non ti vuole nemmeno sentire.
Butti il telefono e spegni la TV, vivi un po' quest'estate come vuoi tu.
Le lucciole che illuminano le chitarre che la sera accompagnano la pasta al pesto che si cuoce mentre qualcuno nella stanza sfoglia il giornale.
E le notizie non ti cambiano più, leggi solo giornali di sport e ti sembra che siano tutti uguali.
Parlano di soldi, di milioni, che fine hanno fatto i veri calciatori?
La leggerezza trasporta i ricordi e le fotografie, il sole che quindi non scende, ma ti rimane negli occhi e ti squaglia la pelle.
Il cuore è libero dalle barriere, la crema solare un ricordo e le spalle bruciate un presente deciso.
Il bacio strano dato e la nostalgia di un vicino passato.
L'estate è illuminata dal viaggio delle lucciole che accompagnano il tuo di viaggio, che ti portano un po' dove vuoi.
Bisognerebbe andare con loro un giorno, con le lucciole, ad illuminare gli sguardi della gente che la sera sta nello sdraio a farsi bagnare dagli irrigatori e a parlare di domani, ricordando ieri con un bicchiere fra le mani.
Si saluterà tutti e tutto, si isserà la vela e si prenderà il volo con una piccola barca in legno o un transatlantico, possibilmente bianco.
Com'è bella l'estate, quella delle cose che rimangono piccole ma crescono con il tempo, come le piante illuminate dai tuoi occhi, curiosi, accesi, capaci di guardare oltre ai muri.
Lucciole ballano, danzano, ridono. Si fermano. Ridono. Illuminano il buio e lo rendono oltre che meno scuro, un po' più sicuro.

lunedì 1 giugno 2015

LA VERITA' SULLA BALENA

Pot Pirì era un francese con due baffi da inglese e lo sguardo da americano.
Viveva in un monolocale in centro a Parigi, sulla Senna.
Non aveva lavoro e non aveva famiglia. Possedeva solo un inseparabile bianco.
Pot Pirì stava tutto il giorno affacciato alla finestra e parlava con se stesso.
Si raccontava di tutto, dalle notizie sportive che sentiva alla radio, al finale dei libri più belli alla faccia della gente che vedeva passare sotto casa sua.
Poi, ogni volta, verso il tramonto, quando il sole si bagnava nell'acqua del fiume e piano piano si spegneva, riprendeva a raccontare la bella storia che aveva cominciato anni prima.
Era una storia che parlava di una balena che viveva nell'oceano Atlantico e vedeva tutto e conosceva il mondo.
Era una balena che aveva vissuto in Africa, in India, in Cina.
Aveva mangiato un sacco di cose buone e di cose strane.
Era una balena di un colore azzurro irreale, con lunghe pinne e un grande muso.
Era diversa dalle solite balene, aveva un naso da pagliaccio e due occhi di una ballerina del Moulin Rouge, con le ciglia lunghe.
Le labbra erano quelle di sua madre.
Bellissime.
Questa balena non aveva uno scopo preciso nella vita, lei viaggiava.
Pot Pirì se la immaginava sempre sotto una scogliera bianca, che nel silenzio della sabbia e della roccia, alzava la sua coda e la testa, schizzando l'acqua in alto, per poi ricadere con il suo peso in mezzo al blu e quindi un gran frastuono tra le onde del mare che profumavano di sale.
E poi ancora rumore, forte e tutto a un tratto un silenzio di pace e la tranquillità delle pinne che sbattono. Era bello viaggiare là... sulla balena.
Era bello vedere il mondo, parlare con persone strane e deformi. Era bello fotografare le albe in Giappone e i tramonti in Islanda.
Poi ogni sera, finito di viaggiare, Pot Pirì leggeva, oppure, si sdraiava sul davanzale con i fiori, quello della cucina, tutto curato, su uno sdraio bianco sempre freddo che dava i brividi alla schiena.
Alzava lo sguardo per guardare le stelle ma si addormentava sempre. Con gli occhiali e le scarpe.
E mentre dormiva sognava sua moglie e la sua fabbrica di biciclette.
Poi si svegliava e viveva il suo viaggio preferito.
Ecco la verità sulla balena: la balena andava dove voleva.

lunedì 25 maggio 2015

ANCHE SE PIOVE SI CORRE

La mattina calda che stava aspettando Derry, non arrivò mai, anzi … la pioggia batteva forte sul tetto e sulle finestre, quindi aveva subito salutato la speranza di poter andare a giocare nel parco.
La mattina di quel sabato, arrabbiato per il brutto tempo, il ragazzo si sedette al tavolo e cominciò a mangiare la sua ciotola di gustosi Corn-Flakes.
Sicuramente avrebbe passato la giornata a giocare al PC.
Così, giusto il tempo di andarsi a sedere alla scrivania che era già rapito dal nuovo gioco.
Tutto preso dalla voglia di sparare al prossimo alieno, sbagliò e cliccò su una pubblicità di quelle dei film e dei vestiti.
Ecco però che non si apre la solita pubblicità perdi tempo, ma un brutto virus arresta tutto il computer.
Chack, piuuuu, f-bom, catan.
Ciocca perfino il monitor.
Così Derry, con la noia che cominciava a salire e a corrompere tutte le sue parti gioiose, si buttò nel suo letto con un tuffo sconsolato.
Sbattendo contro il letto lo mosse ed ecco che un libro impolverato cadde dal ripiano più alto della libreria adiacente.
Un libro rosso, con la muffa.
Derry lo aprì, tanto per vedere se si trattava di un manuale di trucchi per i giochi, ma fu colpito dal fatto che erano pagine bianche, una dopo l'altra, pagine vuote, immacolate.
Scorse tutte le pagine annoiato e alla fine una busta. La aprì e lesse:
Caro scopritore di questo tesoro
-Come se potesse essere un tesoro- pensò...
sei fortunato a trovare questo libro di pagine bianche.
Ti lascio qui un indovinello, che ti farà aprire gli occhi se gli hai chiusi tempo fa:
Ciò che tu pensi che sia, sicuramente non lo è.
Ecco perché è bello, perché sembra un castello ma in realtà è un martello.
Ciò che vedrai, non è detto che sarà bello, ma sicuramente sarà meglio di un incornata di un torello.
Una stronzata!
E Derry buttò a terra il libro, tirò fuori il cellulare e provò a vedere la connessione, ma comparve un AVVISO:
Mi ignori per caso?
Metti via sto coso e cerca i folletti!Messaggi incomprensibili ovunque e ansia che partiva dai piedi fino ad arrivare al cervello.
Poi, guardò verso il muro bianco e vide un ombra grande.
Un folletto!
Un folletto vero camminava per il muro.
Derry scoppiò a urlare e si buttò di corsa dentro la doccia, in un angolo, rannicchiato a piangere.
La luce saltò, lui era solo in casa e le ombre si avvicinavano a lui, vicine, sempre di più.
Arrivò un folletto con in mano il libro rosso e mentre Derry urlava immobile, il piccolo uomo gli porse la raccolta di pagine bianche e disse:
Ignorami pure se vuoi, ma io non ignorò te.
Hai per caso una risposta all'indovinello?”
Silenzio.
Immagino di no, oggi voi ragazzi ai folletti non ci credete e se ne vedete uno impazzite … una volta ridevano e saltavano di gioia …
Ascolta, io ti do la risposta e tu mi prometti mi ascolterai!”
Derry annuì con il cuore in gola.
Era ovvio: il tempo bello mio. Cambia le forme, cambia il suo scorrere, non sempre puoi contarlo e non sempre porta cose belle, ma sicuramente, è meglio usarlo che buttarlo”.

Derry si svegliò, la giornata era piovosa, il sole era in ferie.
Andò al parco a correre con le scarpe un po' rotte. In un angolino di totale normalità, pieno di sassi e cemento, a cui non avrebbe mai fatto caso, non poté non notare una tartaruga viola che mangiava tre foglie di insalata.
Colpito dalla natura, si sedette sul marciapiede e ripensò alle pagine bianche, che il tempo, e solo lui, potrà scrivere.

venerdì 22 maggio 2015

PIACERE, SENTITO

Mentre il treno fingeva di arrivare,
con la sigaretta fatta di carta di giornale fra le dita,
io sedevo con la carta che s'illumina e scrivevo una storiella su una ragazza fin troppo bella.
Avevo la sensazione che il treno non si sarebbe più fermato in quella stazione.
Il conducente non avrebbe avuto il coraggio e non avrebbe frenato.
Io me ne sarei stato sulla panchina ancora per molto.
Mi sento ora, che so che di certezze certe non c'è traccia in questa esistenza,
spoglio della pelle di sogni che mi ero fatto.
Mi sento ora,
con lo sguardo più vuoto, non provo piacere nell'intimo gesto di rimanere da solo,
mesto.
Appoggio ai miei pensieri, un ricordo dolciastro che mi tocca la mente e mi cade per terra.
Non è sangue quello che goccia anche se vicino a me ho una rivoltella.
Non è amore quello che provo,
ma semplice piacere della mente persa.
Così mi allontano nel mare, nuotando ad ampie bracciate e provo il dolore di una medusa di cui m'ero dimenticato.
Non facciamo più niente, rimaniamo qui fermi, assaggiamo il pane di tutta la gente.
E le vedi le facce e riconosci gli sguardi di quelli veri e di quelli bugiardi.
Vorrei stare a capire, in aula gigante, il mondo e la fisica
di questa parola che corre sola e sporca la pagina.
E le vedi le donne, un giorno avranno tutte le gonne.
E la vedi la guerra, che non dichiarata arriva vicino
e ti squarta la pancia.
Si vedono i cannoni,
i giudici corrotti e lo stato fasullo,
che circonda i colpevoli di rose profumate.
Lo vedi il dolore del signore comune, che paga le tasse e muore di fame.
Lo vedi il mare che è più lontano e io non ci nuoto,
altrimenti mi pungono ancora.
Mi sento ora, con la faccia felice, mentre poi guardo la gente che uccide,
mi sento ora bambino viziato.
Bestie di uomini e uomini bestie, il mondo è ammalato e sarà un paziente difficile.
La speranza che nasce e quella che muore, noi
siamo come il tempo che toglie la noia, cancella il dolore,
ma porta per forza delle nuove ore.

giovedì 21 maggio 2015

IL CLOWN


Il clown ha la doppia faccia, sembra indifferente, ma è sempre troppo felice.
Il clown ti ride alle spalle, parla di te. Il clown sa tutto ma non te lo dice. Il clown dice agli altri di non dire ciò che sanno su di te. Ti deride, ti sfotte, ti odia.
Il clown è il bullo della scuola, la ragazza che sogghigna con i denti storti.
Il clown non sopporta di perdere, può solo aver ragione. Il clown tradisce, tradisce tutti.
Il clown è sempre il solito, il clown va evitato.
Il clown non è quello con il naso rosso che diverte i bambini, ma il clown è quello che non si mette niente e resta falso, fingendo di essere giusto.
Il clown lo siamo un po' tutti, ma veniamo costituiti da questo ruolo, quando ammettiamo di esserlo o di aver sbagliato. Che non è detto che sia sbagliato … ho visto tanta gente bella che faceva il clown. Tanta gente che però non era vera.
La gente vera la riconosci perché sa di essere un disastro completo, perché barano ma gli rode la coscienza, la gente vera non indossa maschere se non per carnevale.
La gente vera sa di poter contare su i clown, perché vincono sempre.
Così tutti finiamo in mezzo ad un complesso giro di affari sbagliati e di doppie facce da brividi. Sono meglio dei cecchini a mimetizzarsi i clown.
Scopri a volte, come per caso, anche se caso non è, che ci sono certi tipi che credevi veri, ma che t'hanno fregato fin dal principio.
Ecco tutto. Ecco qui i veri clown del mondo. Quelli che si incontrano per strada senza palloncini e trombette.
Eccoci qui a rimproverarci della nostra falsità e ad applaudire a chi si sente la coscienza sporca.
Ci vorrebbero più clown colorati, con i pantaloni larghi e le scarpone, i bottoni grandi e gli occhi divertiti per il sorriso di un bimbo.
Ci vorrebbero dei clown veri ...

giovedì 14 maggio 2015

PESSIMISMO, NATURALE


Le piante in mezzo al deserto muoiono, a meno che non abbaino la pelle grossa e grandi spine.
Le piante in mezzo al destro non sono niente. Non hanno l'acqua.
Ve la immaginate una rosa o una viola piantata nella sabbia?
Secondo me però, alle persone non succede molto diverso.
Ogni tanto rimaniamo in mezzo ad deserto completo, senza un appoggio, un punto fisso …
Nemmeno nel cielo, le stelle non stupiscono più.
Passa qualsiasi voglia, ti si chiude lo stomaco e non riesci nemmeno a formulare due frasi di senso compiuto per giustificarti.
Succede quando si viene lasciati soli in mezzo al nulla per aver sbagliato.
Ma non sbagliato a non mettere via la pedana dopo la doccia, sbagliato il senso profondo di qualcosa.
Quando ci si rende conto ogni tanto, che insomma, tu davvero non hai capito niente e chi pensavi invece l'avesse fatto ti ha preso in giro.
Poi ogni tanto, prima di partire per il deserto, il tuo deserto, qualcuno ti viene a dire che hai i difetti sbagliati, nel senso: Sei appiccicoso, mi sta male, ti volevo geloso.
Ecco, dopo ciò si parte per il deserto.
Vieni piantato come un viola in mezzo alle grandi dune e chi s'è visto s'è visto.
Poi mentre se lì piantato, ti tornano in mente cose che però non torneranno più.
Non riuscirai a sopravvivere molto senz'acqua nemmeno tu, ma noi siamo fatti per cambiare, per muoverci e quindi andare alla ricerca dell'acqua, trovarla e salutare con una linguaccia chi ti aveva lasciato là in mezzo …
Così sei fresco di mente, ragioni.
Così dopo aver bevuto hai l'acqua per piangere e per pisciare.
Stai meglio e vuoi tornare a casa.
Ma a casa da chi?
Se quando eri a casa nessuno ti capiva, è meglio fermarsi in qualche piccola casa di qualche sconosciuto in mezzo al deserto. Se ci fossero case là in mezzo … case con un camino … un maglione bianco e un palloncino rosso appeso al davanzale.
Ma non c'è niente di tutto ciò. Il deserto è desolato e tu dentro fai fatica a respirare.
La gente si è dimenticata di te come di un sogno. Eri partito bene ma hai voluto continuare e alla fine è stato peggio.
Resti in mezzo ai granelli di sabbia a contemplare il cielo e parlare con Dio.
Alla fine di tutto, non ti resta che vivere.

mercoledì 13 maggio 2015

IL BIMBO E LA FATA


Leonardin c’aveva sette anni.
Era altino, con una bella pancia e l’apparecchio, perché aveva pure i denti storti.
Gli occhiali no, quelli li usava solo per leggere.
Milac invece aveva diciannove anni, non era né sua sorella né sua madre.
Era una tipa un po’ strana, con i capelli viola , la frangetta e gli occhiali rossi.
Milac era la sua fata. Non la fata dei denti, nemmeno una fata che portava i regali, era la fata dei sogni, del futuro e la fata dei consigli.
Seguiva il piccolo bimbo tondo ovunque lui andasse.
Era bellissima, con le ali leggere e bianche e i vestiti piccoli, come lei, teneri, come Leonardin.
La fata era la salvezza di quel bimbo cicciottello, lei lo aiutava quando combinava dei disastri e per quanto fosse piccolo i disastri li combinava grandi, perché lui voleva essere grande, voleva fare grandi passi, ma spesso a farli troppo grandi si mette il piede male e si cade indietro, nel profondo.
Un giorno Leonardin chiese a Malic: “Io e te saremo amici per sempre?”
Con il tono banale di un bimbo piccolino.
“Per sempre!” rispose lei.
Poi gli anni passarono più veloci del previsto e le cose succedevano in sequenza, perfino con troppa naturalezza. Senza stupirsi il piccolo era diventato grande e aveva intrapreso strade complicate, continuava a mettersi nei guai senza riuscire a uscirne perfettamente.
Ogni cosa che aveva stava pian piano scomparendo. I vecchi cominciavano a morire e i giovani a non vivere.
Così il piccolo bimbo ormai cresciuto era confuso. Le persone passavano ore e ore davanti ai display dei telefoni e dei computer, senza mai provare emozioni vere.
Quando tutto poi cominciò a cadere, le città per i terremoti e le civiltà per il petrolio, il piccolo cercava l’amore, ma anche quello ormai stava andando via, l’aveva combinata grossa un’altra volta.
Triste e sconsolato, mentre stava pensando in un parco la sera desolato, ecco volare da lui la fata con i capelli viola e la pelle chiara.
Lui non fu stupito nel rivederla: “Mi avevi detto per sempre”
“Ti ho detto per sempre, non per sempre così … magari meglio!”
Lei si rimise sulla sua spalla dopo tanto tempo ormai e ricominciarono una vita insieme che sapeva di stranezza e che faceva venire voglia di vomitare per l’ansia che provavano del giudizio altrui.
Chissà come avrebbero chiamato, che nomi si sarebbero inventati le persone per  Leonardin e Malic che ancora una volta, dopo essersi persi nella giungla del mondo, erano tornati a vivere insieme.

mercoledì 6 maggio 2015

RELAZIONE MUSCOLOSA



Verso l'una di di notte, con lo sguardo stanco e il passo lento, i piedi che strisciano e l'alito di menta, lui cammina verso la cucina.
Mentre il mondo fuori è spento.
L'estate non è così lontana come sembra.
Un bicchiere d'acqua fresca, un sospiro e uno sguardo neutro su un muro bianco.
Come se fosse un cavaliere incaricato di salvare il mondo, lui riposa il bicchiere con una strana precisione nello stesso punto di prima.
Il tempo scorre sull'orologio grande appeso nella sala come fosse un trofeo di caccia.
Il pavimento di legno scuro, illuminato da una lampada rossa, fa comparire ombre mai viste.
Sul divano due pezzi di pizza alla cipolla freddi e un anello dimenticato per la frenesia.
Due ore di piccole coccole e qualche parola sussurrata al gatto nero che dorme.
Verso le tre di notte, lei si alza dal letto, scoprendo le gambe bianche e a piccoli passi si avvicina verso la sala, a finire la pizza e ricordarsi dell'anello. Ha i capelli spettinati e la maglia stropicciata.
Un morso e un bicchiere di vino rosso avanzato almeno da Natale.
Non c'è una parola che voli, nemmeno un gemito, un accenno col capo.
Tutto è silenzio.
L'inverno non è poi così vicino.
La struttura di un articolo di giornale fa quasi ridere, e lei ride. Come se sapesse fare tutto.
Lui ha sulle guance del lucidalabbra appiccicoso e il gatto fa le fusa.
Lei ha sulle braccia un odore di dopobarba che non è per niente male.
I denti bianchi affondano poco elegantemente nel pomodoro e nella mozzarella.
Non è proprio educata, si è perfino macchiata lei.
Lui ha imparato a mangiare ma è sempre gobbo con la schiena, un vizio che non riesce a togliersi.
Più che un vizio, un grave errore di postura.
Le sue labbra, di lui, sono tagliate dalle gomitate e da qualche pugno che forse non era necessario per comprendere.
Le spalle di lei sono ricurve in su, come una continua risposta scontata che dice: ovvio.
I due ancora non si parlano.
Lui con il respiro profondo e la posa da orso.
Lei con il passo leggero e il modo di comportarsi come quello di un uomo.
Non si chiamano nemmeno “Amore”. Si chiamano per nome. Il divano macchiato di sugo e l'anello infilato al dito.
Tutti e due si alzano e vanno a dormire.
“Scusa te! Dove vai?”
“A dormire. Vieni con me.”
Con i muscoli contratti e le ossa fragili abbastanza da rompersi in continuazione, i due andarono nel letto, su un materasso bianco, con la finestra aperta chiusero gli occhi per una notte che di amore non aveva visto niente, ma che di loro aveva visto tutto.

martedì 28 aprile 2015

GIGIO'NE E IL SUO PENSIERO SU UN MONDO TROPPO TONDO

Gigio'Ne aveva otto anni, frequentava la terza elementare e non sapeva neanche molto bene l'alfabeto.
Con i capelli scuri e gli occhi scuri, vestito di bianco e arancione, sedeva nel secondo banco della prima fila a partire dalla porta finestra che dava su un giardino carinissimo.
Quel giorno, la maestra gli aveva affidato un compito che forse non era così facile come poteva sembrare: Scrivete 10 cose che amate.
Facile no? Aveva pensato il piccolo. Più ci pensava però, più era complicato trovare qualcosa che amasse davvero. La maestra gli chiese se aveva svolto l'esercizio e con il sorriso sul volto gli disse: “Leggimi ciò che hai scritto Gigio!”
Cominciò dal secondo posto, il primo nella classifica lo lasciò per ultimo, per il semplice fatto che non l'aveva scritto.
1
2 La mia famiglia
3 L'Aria
4 Gli amici
5 Il pallone di mio babbo
6 Il rossetto di mia mamma
7 Una foto con la mia famiglia da piccolo
8 La mia bici
9 L'arrosto di nonna
10 Il mio copri piumone
“Bravo 'Ne, ma manca il primo, hai qualche idea?”
“Si”
“Quale?”
“Il mio cane”
Risata generale dei compagni e sorrisino della maestra.
“E come mai Gigio?”
“Facile, perché a lui non frega niente se parlo da solo, se urlo contro il muro, se gioco con i capelli, se guardo fuori, se picchio la mia gamba, se sono arrogante, se faccio l'antipatico, se mi sporco con il gelato. Lui non mi dice di stare zitto, e non lo dico a lei signora maestra, ma io odio chi mi dice che non posso parlare.
Sa, dovrebbero cominciare con lo stare zitti loro! Siamo tutti belli, bravi e saggi, fin quando non ci puntano addosso il dito e questo mi fa arrabbiare!
Ho letto su un giornale che dicevano che la gente che parla molto sta antipatica, perché sembra piena di sé, diciamolo, un po' patacca detta terra terra maestra. Da quel giorno io non sto zitto un minuto. Imparano ad ascoltarmi! Loro stanno tutti zitti così io parlo e parlo e parlo ma non mi capiscono comunque.
Micca che se sto zitto divento simpatico o cominciano a comprendermi eh! Sono bello insopportabile, ma almeno non me ne sto in silenzio senza sapere cosa dire.
Io qualcosa da dire ce l'ho, gli altri nove punti potrei descriverglieli perfettamente, con i motivi precisi per cui gli ho scritti, ma io se me lo permette signora maestra preferisco andare a leccarmi con il mio cane, che mi capisce anche se non parlo!
Scusate il disturbo, domani non ci sono. Sono a infangarmi in un prato. Ci vediamo quando dopo questo discorso, saprete cosa dire!”
E così, con la modestia giusta e quel pizzico di arroganza consapevole, uscì dall'aula e non si vide mai più. Gigio'Ne in realtà è ancora a correre in un prato desolato, lontano dall'incomprensibile e spettacolare mondo umano, che continua a persistere sul fatto che questo mondo sia tondo.

giovedì 23 aprile 2015

L'ODORE CHE C'È QUA!

L'odore della mia città è uguale a quello del mio papà.
L'odore della mia città è come quello della felicità.
L'odore della mia città è un odore di velocità, con il suo circuito e il suo palazzo antico.
Poi per strada becchi un vecchio rintontito, ma l'odore è quello della gioventù.
Ha un profumo che mi ricorda quando eri tu che mi abbracciavi.
Per la mia città hai un gelato tra le mani e hai lasciato a casa il portachiavi colorato.
Non mi sono mai sentito tanto amato.
La città d'inverno è un teatro abbandonato, con i negozi grigi e la gente in biblioteca, le ragazze coi giacconi e niente gambe all'aria aperta.
Tutto è fermo, immobile, come dentro una teca.
Poi arriva la primavera, di soppiatto, senza farsi sentire, come una pantera. Nera.
Gli occhi della gente puoi veder che cambiano, adesso si esce in bicicletta e se c'è una strada la percorri tutta, senza tornare indietro con il volto rosso per il freddo chiamando come un bimbo piccolo la tua vecchia “Dada”.
I giardini si riempiono di fiori e tu lo vedi il vecchio rintontito che è già più sveglio, con un nuovo vestito, corto, che si vedono le rughe fino sui polpacci.
La gente comincia a fischiare perché se lo sente, e se lo fai, in primavera in piazza non sembri un deficiente. Lo fanno tutti di fischiare agli uccellini nel vento, credetemi che non mento.
La scuola sta finendo, gli esami stanno arrivando, l'estate è più vicina e la bionda per la strada ti fa ridere per come cammina. Con la s calcata e i denti a posto, un bracciale che gli occupa tutto il posto del corpo.
Il profumo della case che esce dalle finestre, i rumori dei piatti che cadono e quello delle minestre.
Le parole di mamme non ascoltate e gli sbuccioni di tremende scivolate.
Il voto in matematica che ti fa ancora male, ma è meglio non pensarci, diamo la colpa per i compiti non fatti al maiale.
E te lo vedi il vecchio che ti passa in bicicletta con la pedalata lesta e una bianca camicetta.
Sta andando a vedersi le corse e per sua moglie a comprarle almeno due borse.
Ci si alza con il vento e si dorme con il ventilatore spento.
L'odore della mia città in primavera è quello della felicità.
L'odore della mia città è come quello di quella ragazza là.

giovedì 16 aprile 2015

GNOMI DELIRANTI

In un tempo lontano, in una notte buia e tempestosa, quando i piccoli dormivano e il bosco era in silenzio, due gnomi, dispersi negli alberi e nella loro vita, si trovavano in un piccolo bar per gnomi, con l'insegna: “Qui si sta caldi”.
Sedevano su due sgabelli di legno, con una luce fioca che illuminava il bancone e due sguardi che dicevano più di duemila parole.
Mangiavano una bacca ciascuno e in mano un bicchiere di succo di fragole selvatiche.
Fuori la pioggia cadeva sempre più forte, contro il tetto, contro le finestre.
Loro due gobbi che mangiavano.
Si chiamavano Jigi e Giel.
Erano due gnomi della classe sociale media, senza famiglia, due bravi lavoratori.
Non si conoscevano eppure erano così simili …
“Noi due non siamo due che parliamo molto vero?”
chiese Jigi sottovoce.
“No”
Rispose Giel schiarendosi la voce.
“Jigi”
“Giel, piacere”.
“Hai visto fuori?”
“Io non guardo fuori, lo sento solo”
“Filosofia amico?”
“Vita tizio”
“Hai visto l'ultima gara di pettirossi?”
“Si, gran bella gara”
E giù un altro bicchiere, aspro e dolce, come i giorni della loro esistenza.
“Hai mai visto la Vipera Regina”
“No”
“Nemmeno io”
“Non sapevi cosa dire?”
“Esatto”.
Nemmeno una parola per due ore.
“Cosa fai nella vita?”
“Aspetto che si crei uno spazio per correre. Tu?”
Silenzio.
“Creo quello spazio per viverci”.
“Tu mi capisci?”
“Io ti credo”
“Mi dai la mano?”
“Vieni fuori, che piove, vieni a sentire il rumore che bello, vieni a correre con me dentro quello spazio”.
“Tu sei con me?”
“Fino alla fine”
“Quale fine?”
“Niente ha una fine”
Silenzio profondo.
“La fine del niente allora”.
“Amici?”
“Non lo so”
“Sei fragile vero? Anche con quel tatuaggio di un gigantesco serpente!”
“Sono più duro di una castagna”.
“Andiamo a mangiarle le castagne”.
Così si allontanarono i due gnomi, sotto la pioggia, senza un posto preciso in cui camminare, ma con uno spazio da cercare e un amore da trovare.