venerdì 8 aprile 2016

Vicina distante

Panni stesi su un filo in un giardino estivo, si muovevano insieme alle foglie.
Prima a destra, poi un po' a sinistra.
Loro barcollavano di più, creavano onde bianche, onde nere a fiori oppure onde gialle a mezz'aria.
Mia nonna si era addormentata su di una sedia.
E una vicina di casa sul prato.
Lei era bella.
Aveva tanti anni in più di me. Con il viso un po' strano e gli occhiali neri sul naso.
Che mentre dormiva gli scivolavano in giù.
E stava a dormire tra le api, che si appoggiavano sul suo vestito verde.
Sulle sue mani estremamente delicate e piccole.
E sulle sue gambe, pizzicate da qualche formica che le vedeva come enormi montagne da scalare, montagne rosa, una delicata pelle che mi sarebbe piaciuto toccare, per senitre se davvero fosse così delicata, o fosse ruvida.
Ed io l'avrei preferita ruvida, come il bastoncino di legno che stavo rompendo con le mani.
Io ero piccolo.
Avrò avuto otto anni.
E la guardavo affascinato.
Lei ne avrà avuti ventitré.
Russava ogni tanto, blaterava qualcosa.
Prima rideva poi diventava seria. Quasi si fosse ricordata della sua condizione.
Impossibile a dirsi guardandola, ma se si osservava nei suoi gesti quotidiani, pareva che nella sua vita fosse scontenta, sempre alla ricerca di qualcosa che non trovava, nel mondo, come in quel giardino, nel quale aveva steso un vestito colorato che doveva starle molto bene.
Dormiva con le farfalle che andavano lontano.
E io tiravo i sassi alla nonna, tanto non se ne accorgeva, oppure fingeva di non accorgersene.
Chissà se la nonna poteva sospettare che io amassi quella ragazza sul prato.
Chissà se anche lei sognava quello che sognavo io.
Avrei voluto baciarla in fretta e correre via, e se mi avesse visto mi sarei giustificato dicendole che ero un bambino.
Di solito i grandi ai bambini perdonano tutti.
Lei però non era poi così grande.
Ed io non mi sentivo tanto piccolo.
Decisi che avrei aspettato ancora a dichiararmi.
Andai a guardarla dalla finestra del mio palazzo.
E vidi come, tra gli abiti al sole, che si asciugavano e seguivano il movimento delle foglie degli alberi, nel prato, tra le api sui fiori che succhiavano la vita, una ragazza, si muoveva nel sonno.

domenica 21 febbraio 2016

Ivo Bitetti

Un volto tranquillo, un po' addormentato, il sorriso furbo e un borsalino nero sulla testa.
Così appare Ivo Bitetti, campione dello sport, in una foto degli anni '40.
Vinse due campionati con la Rugby Roma ed uno con la S.S. Lazio di pallanuoto.
Tutta via non fu per questo che la storia si inchinò e lo fece entrare.
E non è per i titoli vinti che a qualcuno piacerà ricordarlo, e magari con il petto gonfio dire: «Gioco a rugby come lui».
Passavano i secondi del giorno 27 aprile 1945 e dentro ad un camion di tedeschi che cercava di varcare i confini con la Svizzera, si trovava un uomo che fingeva di essere ubriaco ed addormentato, nascosto, travestito da soldato nazista. Definito uomo solo dal momento che non esistono razze.
Ed ecco che, quando il camion viene fermato da una brigata di partigiani, colui che in quel momento doveva fungere solamente da interprete, svolge un ruolo fondamentale nella nostra storia.
Ivo infatti lo nota.
Quell'uomo che si finge ubriaco non è un soldato.
A ben vedere, non è nemmeno un tedesco.
Quell'uomo è l'ex dittatore fascista Benito Mussolini.
E non fu molto il tempo che passò da quando Bitetti se ne accorse, a quando «il duce» venne arrestato.
E non fu molto nemmeno il tempo che passò da quando i partigiani lo presero a quando lo fucilarono.
Il rugby, come tutto, è quindi da quel giorno profumato di libertà.
Di giustizia.
Ma ancora sporco di sangue e di sofferenza.
E per fortuna che Ivo Bitetti, sapeva guardare davanti, vedere il suo avversario, e prepararsi a placcarlo.