sabato 25 ottobre 2014

TEMPO DI EMOZIONI

Dovevamo e dovevano capire di cosa si trattasse quella roba lì.
Eravamo tutti uguali. Bianchi o neri. Lì ad aspettare qualcosa che mai sarebbe arrivato.
Viaggiavamo da giorni su quell’astronave.
Vestiti uguali, con gli stessi pensieri, con lo stesso taglio di capelli. Cambiava solo il volto.
Ognuno di noi aveva una cabina su quel veicolo speciale.
C’era un rubinetto e un letto. Niente water o lavandini o altro.
I finestrini erano chiusi e si poteva guardare fuori solo per dieci minuti al giorno.
Era un regolamento che avevano messo quelli che dirigevano, l’alta società.
Avevano paura che le persone potessero provare dei sentimenti o capire la bellezza guardando le stelle.
Quella sera non lo aprirono neanche, doveva essere successo qualcosa.
Il cibo era servito su piatti d’argento.
Il menù deciso da quelli dall’alto.
Tre pastiglie a ognuno.
Un giorno rosse, un altro verde oppure blu o bianche.
Si scioglievano sotto la lingua e dicevano che ti nutrivano.
Non avevano sapore e neanche odore. Tutto gli era stato sottratto.
Non si beveva niente, ti infilavano nel collo mentre dormivi dei tubi e spingevano dentro del liquido incolore.
Come tutto. Come tutti.
Avevamo l’anima senza spirito e le emozioni e i ricordi erano pallidi, anzi inesistenti, nella nostra mente vuota.
Avevamo vissuto un’altra vita.
Eravamo stati selezionati tutti insieme come uomini e donne più tristi del pianeta.
Spediti come pacchi postali nello spazio, verso Marte, a colonizzare e creare nuove unità famigliari.
I nostri ricordi erano stati presi dagli uomini sperimentatori.
Due punture e via. Niente più memoria.
Era l’ultima ora in cui dovevamo studiare elettronica e i nostri occhi correvano sulle righe tutte uguali, quando di colpo l’allarme comincia a strillare impaziente e forte e le nostre orecchie impassibili.
La voce dell’altoparlante era neutra e diceva di abbandonare l’astronave attraverso il sistema imparato.
Un buco era stato rilevato nella sala studi, quella dove mi trovavo.
Provavo un sentimento di paura. Quella la sentivamo. Ero molto spaventato dal fatto che potessi essere contagiato dall’aria esterna.
Troppo tardi, un soffio d’aria mi toccò la pelle e andò probabilmente da qualcun altro ma nessun altro lì c’era.
Tutti volatilizzati, scappati, ordinatamente, sistemati in file.
I miei occhi rimasero sbarrati contro la parete.
Aria, avevo sentito dell’aria sulla mia pelle. Era da quando eravamo partiti che non sentivo niente sulla pelle.
I ricordi mi ritornano, quasi magicamente, la mia vita in frammenti dispersi entrò nella mia testa.
Non ci rimane, scompare, ancora vuota e ora, comincia a riempirsi di nuovo, con l’aria, le emozioni felici, il coraggio, la bellezza, la poesia, l’amore, l’aria mi tocca.
Entra la paura, l’odio il terrore, la guerra, l’immaginazione e la fantasia.
Tutto dentro me non è mai stato.
Mi accorsi solo in quell’istante di essere vivo.


martedì 21 ottobre 2014

I miei nonni ora

Era il ventotto settembre 1914.
Avevo cinque anni.
Casa di mia nonna era calda e accogliente con la tavola pronta e apparecchiata modestamente ma con eleganza.
Fuori pioveva un po’ e il calore del caminetto ci scaldava a tutti l’anima e la pelle.
Stavo come sempre giocando con mia sorella e il mio grande nonno orso, quando passando vicino a un mobile che non avevo mai notato, mi incantai davanti ad una foto.
Era in bianco e nero,  di trent’anni prima. Forse anche quaranta, perché no cinquanta. Si sono sicuro, di cinquant’anni prima quella fotografia. Ingiallita ai lati ma perfettamente tenuta, lì nella sua bella cornice argentata e semplice. Immortalati dietro al vetro i miei nonni da giovani. Quando avevano vent’anni e la loro era una situazione di attesa, quando si è giovani, si aspetta sempre qualcosa. Si vuole andare avanti e loro lo stavano facendo. Si trovavano in cima ad una montagna a strapiombo sul mare.
Indossavano una camicia bianca e pantaloni scuri e mia nonna, un abito chiaro, sembrerebbe potesse essere verde, che arrivava alle cosce.
Il vento aveva scompigliato i capelli ad entrambi ma stavano bene quei capelli che seguivano la brezza marina.
Erano abbracciati e sorridevano. Felici come bambini, che bambini loro erano. Scalzi sulle rocce, ignari di quello che intorno a loro stava accadendo ma felici di esserci dentro fino al collo. Gli occhi erano illuminati di una luce speciale e si capiva che pensavano e credevano nella passione, nell’amore e nei sogni. Nell’aria che ti porta dove vuoi. I miei nonni lì, così, semplici ed istintivi.

“Rommy ci sei?”
Mia sorella più piccola mi stava chiamando. Andiamo a giocare. I miei nonni erano ancora lì, che giocavano e sorridevano e mi è bastata quella foto a capire che la vita è un gioco. Che è breve. Che loro due ora anziani, sono felici lo stesso, come anni prima. Che la foto non c’l’ hanno ora perché le foto si fanno prima di un viaggio, per vedere come si è all'inizio e poi alla fine per vedere come si è diventati. così almeno è nelle storie che hanno una fine, questa storia, queste vite, dei miei nonni giocherelloni e sorridenti, questo nei miei ricordi non finirà mai.